Un tributo a Place de la République.

Non si risponde al vuoto con altro vuoto

L'attentato nel giorno dei saldi di stagione. La paura che afferra tutti e i tanti slogan. Davanti allo smarrimento, la sfida del fatto cristiano: «Da chi ci aspettiamo la salvezza?». Il contributo di un insegnante che vive i fatti di Parigi da vicino
Silvio Guerra

Mercoledì 7 gennaio, il giorno dell’attentato al giornale Charlie Hebdo era anche il giorno dell’inizio delle vendite promozionali. A Parigi, significa girone dell’inferno per chi si avventura nei quartieri centrali. Una bolgia “programmata”.

Sono uscito dal metrò, in uno di questi quartieri, e ho visto materializzarsi il vuoto. Quasi nessuno per le vie, nessun rumore, pochissime macchine. La paura era fisicamente palpabile in tutto ciò che poche ore prima si doveva vivere nella frenesia dello shopping a tutto spiano. Ho pensato all’inizio dell’Apocalisse e mi sono detto: «L’inizio sarà così».

Vuoto è la parola che più descrive la prima sensazione di quanto è successo. Tutto è come sempre, come prima. Ma tutto si percepisce vuoto. Si è compiuto un massacro in nome non so di chi e di che cosa. L’effetto creato è il vuoto umano: non poter più comunicare, muoversi, criticare. Si è ucciso.

Si dice che i carnefici sono dei “barbari”. Mai i veri barbari erano attirati dalla civiltà di Roma, dalla sua bellezza. I presunti barbari, oggi, sono attirati solo dal vuoto: «Fare vuoto». Come alcuni terroristi hanno dichiarato in altre occasioni: «Vogliamo portare l’inferno in terra!».

L’attacco al giornale non è appena alla “libertà d’espressione”, ai “valori della Repubblica”, all’“Occidente”, come si legge e si sente in questi giorni. Perché questa libertà, come i valori invocati, sono stati generati da una civilisation nel corso dei secoli. Non sono nati da soli. Come ha detto giustamente Nicolas Sarkozy: «La guerra dichiarata è contro la nostra civilisation».

Guardando la reazione delle persone, in questi primi giorni, mi viene appunto da chiedere: che cos’è rimasto nella nostra società di oggi di questa eredità di civilisation, di una cultura che ha generato la Fraternité, l’Egalité, la Liberté?
Slogan.
Mi ha colpito, come le catene televisive, subito dopo il terribile attentato, hanno incominciato a coniare slogan: «Io sono Charlie», «Sono libero», «Omaggio a Charlie», «Siamo tutti Charliberté».
All’unanimità, tutti hanno adottato questi slogan, come segno di lotta “alla barbarie”.

Mi è venuto da chiedermi: ma che cosa vogliono dire queste frasi? Che cosa mi comunicano? Cosa vuol dire essere libero quando non ho più la libertà di muovermi, di andare a teatro, al museo, di ritrovarmi con amici? Quando c’è una volontà di “tagliarmi” dalla storia e dalla tradizione che mi hanno generato e hanno forgiato questo vivere in società?

L’emozione, di fronte a quanto è accaduto, ha fatto rinascere un desiderio di umanità, di “appartenere”, cioè di non rimanere da solo di fronte a una tale tragedia.
Ma si può rispondere al vuoto con un altro vuoto? Quanto potranno tenere queste parole di fronte a tanto odio e sofferenza? Di fronte a una volontà “nemica” di questa civilisation?
Il vuoto fuori di noi, forse, è già in noi.

La sera prima del tragico attentato, con alcuni amici avevamo letto il testo sul Natale di don Julián Carrón. La consistenza di quanto ci eravamo detti non ha evitato lo smarrimento nostro, ma una frase, ora, scocca come un dardo: «È per questo che il Natale ci invita a convertire prima di tutto la modalità di concepire da dove può venire la salvezza, cioè la soluzione dei problemi che la vita quotidiana ci pone. Sfida ciascuno di noi con la grande domanda: da dove ci aspettiamo la salvezza?».

Queste parole di fronte all’immane tragedia diventano ancora più urgenti. Che cosa, chi, ci può salvare da una tale situazione? Che cosa vuol dire aspettarsi la salvezza di fronte a tali assassini? L’arresto dei criminali? La giustizia? La libertà di esprimersi? Che tutto ritorni come prima?
È tutto vero, ma non mi basta.
A quella domanda di Carrón capisco che posso rispondere se non sono da solo.
Paradossalmente, di fronte a tanto dolore, smarrimento e paura, vedo compiersi in me il senso di festeggiare, oggi, il Natale: Dio nella prova non ci lascia mai soli.

Non so quanto la mia sorte sia legata alla follia di questo vuoto.
Ma in queste ore così drammatiche, colgo l’urgenza di non vivere più “a credito”.
L’unica possibilità è di vivere - certo - perché riconosco di essere voluto, amato, al di là di qualsiasi cosa possa accadermi. Diventa, ripeto, ancora più acuta e quindi paradossale l’evidenza che Cristo nato è l’unico fatto che dà consistenza al mio io. Di guardare la realtà come Lui mi guarda, fin dal primo mattino. Nemmeno tutto l’odio e il vuoto che il Male diffonde possono sminuire questo desiderio di felicità, di speranza, di libertà. Dire Cristo non è una parola vuota, ma riconoscere e verificare se amo la vita come si presenta più di me stesso.

Sono un professore e, fin dal primo istante dopo l’attentato, ho detto ai miei allievi: «Guardate, se non vogliamo anche noi partecipare alla barbarie, l’unica possibilità è di amare ciò che dobbiamo fare, cioè studiare, insegnare, guardare i compagni o i professori come un bene. Perché attraverso questo sguardo “studioso” (innamorato) possiamo costruire una nuova civiltà». Compiere la vera “rivoluzione di sé”.