Don Cesare Zaffanella è morto il 26 marzo.

«Accettate tutto e datevi da fare»

Una paternità che ha spalancato tante vite a Cristo. Dai 25 anni in Argentina alle ultime righe per i suoi parrocchiani. L'incontro con don Cesare Zaffanella nelle testimonianze dei suoi "figli": «Possiamo scegliere di vivere la nostra vita come la sua»
Cristiano Guarneri e Maria Acqua Simi

«Ti aspetto, eh!». Alla fine della messa, don Cesare Zaffanella percorreva a grandi falcate la navata della chiesa per aspettare i fedeli in fondo al portone. Due parole, un abbraccio e poi quel saluto: «Vieni a trovarmi, ti aspetto». Lo diceva a tutti, sempre. Un invito, un aprire le braccia ai fedeli della piccola parrocchia di Bonemerse (Cremona), dove era arrivato nel 2008 dopo 25 anni di missione in Argentina. Giusto in tempo per salutare l’amico di sempre, don Natale Bellani (che malato di tumore se ne sarebbe andato di lì a poco), prendere il suo posto come parroco e diventare assistente diocesano di Comunione e Liberazione a Cremona.
Per il Sud America, padre César - come lo chiamavano là - era partito nel 1984, a quarant'anni, come Fidei Donum. Nel Paese latino-americano guiderà diverse parrocchie nelle Diocesi di Avellaneda e La Plata, per poi insegnare all'Università Cattolica di Buenos Aires. Ed è qui che conoscerà molto bene il cardinale Bergoglio. Tanto che, quando quest’ultimo diventa Papa, il sacerdote organizza un pullman per Roma: passando in mezzo alla Piazza, papa Francesco lo riconosce e si sbraccia per salutarlo.

Aveva accettato la missione, come amava raccontare, anche grazie all'entusiasmo contagioso che respirava nella fraternità con don Giussani. A Cremona lasciava una piccola comunità del movimento - che negli anni sarebbe cresciuta sempre di più - e gli amici come Gabriella e Giampietro Geroldi, una delle coppie "storiche" di Cl cremonese. È uno dei loro figli, Damiano, a ricordare quegli inizi. «Casa mia divenne il punto di incontro e di amicizia per don Cesare e per tanti di noi». A casa Geroldi fanno tappa anche ospiti che arrivavano da lontano. «Spesso mi toccava dormire sul divano perché c'era il tal prete o la tal suora che lui aveva invitato a Cremona», ricorda Damiano: «Più di una volta capitò lì anche Claudio Chieffo».
A stupire di più erano due cose di don Cesare: «La semplicità e la capacità di valorizzare il bello in ogni cosa. Era un prete del movimento, ma non in modo schematico. Anzi, quella appartenenza lo rendeva capace di uno sguardo positivo su tutto». Damiano ricorda un episodio personale: «Avevo 16 anni e l'esperienza con Gs non mi corrispondeva. Glielo dissi, a bruciapelo. E lui: "Bello!", mi disse: "Per altre cose succede anche a me. Ma ricordati: quando uno compie un gesto pur non avendone voglia, il primo ad apprezzarlo, fino alla gratitudine, è Dio". Anche oggi, nelle situazioni di fatica, mi ricordo di quella frase».
Accoglieva tutti: molti dei ragazzi che incontrava erano reduci dal Sessantotto, ma cominciavano a capire che l’ideologia sbandierata in quegli anni non riempiva il cuore. Come racconta Aida: «Non pretendeva di cambiarci. Non era schematico. Tanto che quando è partito per noi era semplicemente “Cesare”, il fratello, l’amico. Eravamo una comunità di studenti, che lui aveva timore a lasciare. Anni dopo ci raccontò che aveva paura di lasciarci soli, ma vedendo come le nostre vite erano fiorite, si era accorto una volta di più della grandezza della Provvidenza».

La scorsa settimana don Cesare e Gabriella sono tornati al Padre. Sono andati al Cielo dopo una lunga malattia che li ha visti camminare insieme fino alla fine. Negli ultimi mesi - tutti e due colpiti da tumore - si erano ritrovati nello stesso ospedale. Sapendoli così amici, qualcuno aveva avuto l’accortezza di metterli in stanze vicine. E per mesi è stato un via vai di amici, di dialoghi a volte appena sussurrati, di preghiere instancabili. Loro due - amici dagli inizi - ci hanno testimoniato fino alla fine la fecondità del vivere la propria vocazione fino in fondo, anche quando questo ha voluto dire soffrire. Don Cesare come sacerdote e Gabriella come madre, sposa, nonna, amica. Così, in questi giorni dolorosi eppure belli, non è stato strano assistere a due funerali che sono stati una vera e propria festa. Con il coro, con le trombe, con centinaia di amici e moltissimi sacerdoti sull’altare.
Solo qualche settimana fa il sacerdote aveva scritto alla comunità di Bonemerse: «Prego per voi e per me, per la guarigione del vostro e del mio cuore, in casa, in chiesa e fuori. Accettate tutto e datevi da fare, con la Grazia di Dio, per raccogliere e superare tutti gli ostacoli». Inoltre, aveva chiesto di pregare per «diventare più missionari, più testimoni in parrocchia, nei movimenti, in casa, coi colleghi, coi vicini e con chiunque incontriate anche solo una volta per strada». Infine l'invito a leggere con attenzione l'Esortazione apostolica di papa Francesco Evangelii Gaudium. E quando nelle scorse settimane le sue condizioni si sono aggravate, gli amici di Cl dell'Argentina hanno scritto a noi amici italiani: «Senza di lui, all'inizio, non sarebbe germogliato il seme del movimento nel nostro Paese e dato che questa è la nostra salvezza, il cuore è pieno di gratitudine verso questo regalo che Cristo ci ha dato per camminare verso di Lui. Che padre Cesare viva e si compia in lui questo amore di Dio Padre, che con la sua tenerezza mai abbandona la sua creatura».

L’Argentina
Nel 1984 don Cesare fa in tempo a sposare alcune coppie di fidanzati di Cremona e poi parte per l’Argentina su richiesta del Vescovo. «Mi ricordo ancora il giorno che lo andai a prendere a Ezeiza», racconta padre Leonardo, francescano missionario che in Sud America ha condiviso col sacerdote cremonese dieci anni «di amicizia, di vera fraternità e missione». «Io ero un ragazzo di 24 anni, lui un uomo maturo. Tornando in macchina dall'aeroporto ho pensato: la mia missione sarà vivere la fraternità con quest'uomo e se questo è vero si dilaterà». La regola tra i due, in quegli anni, è la loro amicizia in Cristo. «Mettere in comune tutto», dice padre Leonardo: «Il tempo, le capacità (le mie poche, le sue davvero molte e geniali!), soprattutto decidere tutto insieme rischiando nella nostra comunione i criteri personali, i gusti e le sensibilità così diverse, provocarci a vivere come mendicanti di Cristo, aiutarci a vincere la tentazione dell'attivismo (soprattutto la mia) e le preoccupazioni del "successo". Il tempo vissuto con Cesare è stato davvero per me l'esperienza di una comunione profonda».
Proprio quest’anno padre César avrebbe voluto tornare per festeggiare i 30 anni del Movimento a Buenos Aires. Sono tante le testimonianze arrivate in questi giorni. Alcune commoventi, altre piene di allegria e tutte ricche di gratitudine. Come quella di Elbio Lopez, della comunità di Cl di Montevideo: «Era molto difficile vivere il movimento: la società montevideana era ostile ai movimenti ecclesiali. In questo clima duro, un pugno di persone cominciò a camminare in silenzio, con la guida di Cesare, l'affetto di Cesare e la profondità di Cesare. Una delle sue frasi preferite? "Confida, vai avanti, opera. I frutti sono un problema di Dio". E di frutti – la sua missione in Argentina – ne ha portati. Sono decine i giovani che hanno deciso di fare una famiglia o di vivere la verginità dopo l’incontro con lui. Racconta Cristian: «Mia moglie Carina – che è ebrea – incontrò Cesare a una vacanzina a Foz e cominciarono a parlare a lungo di ebraismo». Ne nacque un’amicizia sincera. «Qualche tempo dopo Carina rimase incinta e Cesare, appena glielo dicemmo, prese un autobus da Buenos Aires e venne fino a Sunchales per farci il corso prematrimoniale: io non ci potevo credere, ma lui sapeva che c’era una grande sfida nel nostro matrimonio, all'inizio per l'opposizione dei miei suoceri e nel futuro con la decisione della fede dei nostri figli». Di figli, Carina e Cristian ne avranno cinque.
Anche Omar racconta di come la vita sua e della moglie sia cambiata grazie al sacerdote: «Quando arrivò in Argentina, l'incontro con lui fu sorprendente, un abbraccio che ci ha accompagnato per la vita e per questi nostri 25 anni di matrimonio: da fidanzati è lui che ci ha accompagnato e che ha celebrato il sacramento del matrimonio e poi anche il Battesimo dei nostri quattro figli ed è padrino di nostra figlia più giovane. Gli eventi più importanti della nostra vita sono passati misteriosamente attraverso le sue mani, in modo che noi dobbiamo la vita alla sua, per come l'ha spesa qui in Argentina, perché il carisma era la sua presenza in mezzo a noi».
O come Alicia, che incontrandolo appena ventenne, decise poi di entrare nel Gruppo Adulto. «Padre Cesare era ospite della comunità di Santa Fe nel 1985. Fu un anno di un'intensità costante in cui tutti (avevamo circa 20 anni) vivevamo incontri, gesti, ritiri, viaggi con entusiasmo e dedizione.. A dicembre facemmo un ritiro di Avvento, predicato da padre Cesar. Lo volli incontrare (Dios! Come fu fondamentale quel momento! Lo ricordo ancora commossa, furono le mie “quattro del pomeriggio” di San Giovanni). Gli dissi impetuosa: "Voglio fare qualcosa per esser sicura che tutta la mia vita sarà vissuta con l’intensità con cui viviamo quest'anno”. (...) Mi rispose: "Hai pensato alla tua vocazione?". Con quella domanda spalancava la mia vita a Cristo. Mi disse: “Ora vivi tutto quello che devi vivere attenta: se incontri un ragazzo approfondisci. Se no, se ti fa piacere, possiamo vederci e riparlarne”. Tornai da lui a marzo e cominciai a viaggiare ogni mese a Buenos Aires per incontrarlo e verificare il percorso della verginità. Ogni incontro, ogni dialogo erano una novità e di una corrispondenza impressionante. Lui era molto leale, discreto, intelligente, affettuoso. Nel 1986 quando venne a trovarci il don Gius, mi disarmò la semplicità con cui parlò della vocazione: “Se c'è una chiamata e si ha una risposta, questa è la vocazione”. Cesar mi prese per mano e nel 1987 mi fece incontrare il don Gius per iniziare il primo anno. Fu talmente padre, così leale con me, così rispettoso della mia strada e la mia libertà che anche quando ci fu un dubbio e lui mi disse che se volevo potevo lasciare questo cammino, mi ritrovai a riconoscere con certezza che non c'era altro modo più interessante per me. Mi resi conto che mi aveva portato a riconoscere tutti i fattori di me che mi hanno permesso di fare un cammino personale, per poter vivere un rapporto vero con Cristo e con tutta la realtà».

Vitorchiano
Con Gabriella, don Cesare aveva poi portato avanti un’amicizia molto speciale con il monastero delle Trappiste di Vitorchiano. Sono sei le cremonesi entrate a Vitorchiano. E in cinque di quelle vocazioni “c'è di mezzo lui”. «Ci ha sempre trasmesso il senso di una positività radicale e non ingenua», ricorda suor Giusy, «perché fondata sulla certezza di chi è Colui che ci ha amati, una genuina capacità di ammirazione per ogni briciola di vita e di bellezza che gli si faceva davanti, la caparbietà di una speranza che sfidava l’ombra di morte».
Per suor Maria Giulia, don Zaffanella è stato molto prezioso nel momento più decisivo della sua vita: «Quando non sapevo tanto che fare della mia esistenza mi ha preso per mano e con la sua compagnia mi ha aiutato a scoprire la mia vocazione. Ha risvegliato in me il desiderio del Signore, senza usare tante parole, ma tenendomi davvero sempre per mano, come un papà». Da parte sua Carolina ricorda la positività del sacerdote: «Questo veniva dal fatto che aveva piena e totale fiducia nella Provvidenza, nel disegno buono di Dio». Non si stancava di richiamare «all’amore fedele e paziente di Dio, un amore che supera ogni peccato e ogni limite», dice suor Francesca, che decise di entrare a Vitorchiano negli anni dell’Università.
Non era un musone, don Cesare: sapeva entusiasmarsi fin quasi al punto da ridiventare bambino. C'è un fatto, accaduto qualche mese prima di morire, che rende bene l'idea: in oratorio, c'erano alcuni ragazzi che giocavano a pallone, sotto i suoi occhi. A un certo punto, un po' prendendolo in giro, gli dicono: «Don, vieni a fare due tiri?». Lui ha spalancato un sorriso enorme, è salito in casa e si è presentato sul campetto in pantaloncini. A fine partita si abbracciavano tutti come grandi amici. Perché questo sono stati Cesare e la Gabri, per tantissimi di noi: due amici la cui vita è stata un dono di sé continuo che ha generato, è stato fecondo, ha portato frutto. E oggi - seppure già ci mancano tantissimo - noi sappiamo che possiamo scegliere di vivere la nostra come loro ci hanno testimoniato. Una strada dritta al Paradiso, con il centuplo quaggiù. Certi che loro stanno là, con le braccia spalancate e il loro instancabile sorriso: «Ti aspetto, eh!».