Padre Romano Scalfi.

«L'ecumenismo c'è se io sono unito a Cristo»

Il 32° Premio alla Cultura Cattolica è stato consegnato a padre Romano Scalfi, fondatore di Russia Cristiana. Dalla bellezza della liturgia bizantina al "mal di Russia", fino all'esperienza del samizdat, per ribadire «la centralità dell'uomo nella storia»
Diego Toigo

Padre Romano Scalfi avanza con passo lento, appoggiandosi a un bastone nodoso che ben si adatta alla sua figura ieratica e barbuta. Sera di venerdì 17 ottobre, Bassano del Grappa. Il teatro della cittadina veneta, gremito di gente e di giovani, lo accoglie con un applauso. Sul palco campeggia la pergamena del Premio Internazionale alla Cultura Cattolica che quest’anno è stata assegnata a lui. Giunto alla XXXII edizione, l’annuale riconoscimento fu istituito nel solco dell’insegnamento di don Didimo Mantiero, sacerdote fondatore, a Bassano, dell’associazione La Dieci, del Comune dei Giovani e della Scuola di cultura cattolica, per indicare, a credenti e non, alcune personalità che si sono impegnate per la promozione della cultura cristiana. E quest’anno è toccato al novantunenenne fondatore di Russia Cristiana.

Accanto a padre Scalfi siede Luigi Geninazzi, che ha il compito di condurre l’intervista. Prima domanda: «Com’è iniziato in lei il “mal di Russia”?». La voce di padre Scalfi si alza mansueta e decisa: «All’inizio della conoscenza c’è la meraviglia»; e subito racconta di quando, giovane seminarista a Trento, poté assistere per la prima volta alla divina liturgia celebrata da alcuni gesuiti del Russicum, il Pontificio Collegio voluto da Pio XI. «Tutto è cominciato quel giorno. La bellezza della liturgia bizantina mi conquistò. A qualcuno potrebbe sembrare una cosa sentimentale, ma Dio si serve anche delle piccolezze». Dalla bellezza della liturgia alla passione per la Russia il passo fu breve. E cominciarono i viaggi.

«Padre Scalfi non ci ha fatto conoscere soltanto la grande tradizione ortodossa, gli autori del dissenso», osserva Geninazzi: «Ma anche parole ed esperienze nuove, come il samizdat». L’anziano prete si illumina: «Ricordo un operaio che, dopo aver lavorato per otto ore in fabbrica, ne dedicava altre otto al samizdat. I testi venivano battuti a macchina in sei copie e poi diffusi perché altri li copiassero. È così che centinaia e migliaia di libri proibiti hanno raggiunto gli angoli più remoti dell’impero sovietico. Il samizdat era un’iniziativa rischiosa, ma muoveva la responsabilità personale. Se Marx diceva che le forze produttive determinano la coscienza, il samizdat ribadiva la libertà e la centralità della persona nella storia».

L’intervistatore incalza: «Oserei dire che padre Romano è stato un vero “contrabbandiere” di libri e di idee». Scalfi si gira di scatto con un sorriso: «C’era una suora russa cattolica, in Polonia, che si era fatta capofila di una vasta rete di relazioni; attraverso di lei facevamo pervenire in Unione Sovietica migliaia di vangeli. E questo era possibile perché nell’apparente dominio dell’ateismo, in realtà la fede c’era ancora».

«In questo modo, il samizdat creò tante piccole comunità capillarmente diffuse», continua Scalfi: «E contribuì a far crescere un desiderio di pace, una mentalità non violenta. Anche oggi in Ucraina sta fiorendo un’esperienza simile. Le cose cambiano dal basso, dalla responsabilità della persona; io non spero nulla dalla politica; spero nella responsabilità del singolo». Il samizdat non voleva combattere il comunismo, ma aiutare le persone a crescere nella fede; né padre Scalfi, all’inizio, voleva fondare nulla; lui voleva soltanto fare il parroco in Russia e morire in Russia. E, invece, il 4 ottobre del 1957, nel giorno in cui l’Unione Sovietica ipotecava il futuro con l’impresa dello Sputnik, padre Scalfi fondava Russia Cristiana per aiutare il popolo russo a riannodare il filo con la sua tradizione.

Quando Geninazzi lo interpella sulle prospettive dell’ecumenismo, Scalfi non ha esitazioni: «Io collaboro alla prospettiva ecumenica quanto più sono unito a Cristo. L’ecumenismo parte dalla persona. Occorre che i cattolici siano sempre più cattolici e che gli ortodossi siano sempre più ortodossi; se io sono unito a Cristo, allora il Signore farà l’unità delle Chiese». E qui il pensiero corre allo starets di Solov’ev, l’autore più amato dall’anziano sacerdote: «Grande sovrano! Quello che noi abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui Stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della Divinità».

Scalfi ha appena compiuto 91 anni; la vivacità delle sue risposte, la serenità del suo parlare stupiscono; e l’intervistatore si lascia andare a una domanda “fuori tema”: «Padre Scalfi, c’è un modo per invecchiare bene?». «Il punto non è invecchiare bene, ma vivere bene. Non è questione di anni, ma di fede. Se c’è la fede, non c’è difficoltà che possa toglierci la serenità. Il Signore si serve anche degli stracci per fare dei miracoli».

È il momento della premiazione: lettura della motivazione, consegna dell’icona, della pergamena e della medaglia. L’incontro si conclude fra gli applausi. Padre Scalfi si alza in piedi a fatica, prende fra le mani l’icona, la guarda, la tocca, la bacia e si fa il segno della croce alla maniera ortodossa. Gli chiedono un augurio finale: «Che cresca la responsabilità della persona. Se cambia la persona, cambierà anche l’Italia. In Russia la libertà è stata goduta in una situazione terribile, del tutto ostile».

Sceso dal palco, guadagna lentamente l’uscita. Molti gli si fanno incontro, molti gli parlano, alcuni lo abbracciano: lui ride e abbraccia a sua volta. È la bellezza di un incontro. Le parole di Pavel Florenskij, citate nel corso della serata, prendono carne: «La verità si esprime in amore e l’amore fiorisce in bellezza».