San Francesco d'Assisi.

Francesco, le creature e la pace

Quarto passaggio delle serie sulla scelta del nuovo Papa di prendere il nome del Santo di Assisi. A tema, il suo abbraccio alla realtà tutta, segno «del supremo atto di amore della Croce»
fra Paolo Martinelli*

Alla comprensione di Francesco d’Assisi come santo che ama tutte le creature ha contribuito non poco la bolla del beato Giovanni Paolo II Inter sanctos, con la quale nel 1979 l’Assisiate veniva dichiarato “Patrono dell’ecologia”. Il motivo addotto dalla bolla pontificia fa riferimento al Cantico di Frate Sole, più comunemente conosciuto come Cantico delle creature; considerato peraltro il testo poetico più antico della letteratura italiana. Tutti ricordano probabilmente l’espressione che viene ripetuta più volte nella preghiera: Laudato sie, mi’ Signore.

Ma il Cantico verrebbe del tutto equivocato se venisse inteso come una espressione naturale di ammirazione per la bellezza della natura, da cui far scaturire un atteggiamento in favore della sua difesa. Infatti, al tempo di Francesco non c’era alcun bisogno di “difendere la natura”; piuttosto occorreva “difendersi” da essa, dal suo carattere selvatico, aspro ed indomabile.

Al centro del Cantico, in realtà, non ci sono le creature ma Dio, come si evince proprio dal suo incipit: «Altissimu, onnipotente, bon Signore, Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione. Ad Te solo, Altissimo, se konfane, et nullu homo ène dignu Te mentovare». Le cose non sono Dio. Non c’è alcuna ombra di panteismo. La realtà creata è fonte di lode a Dio, perché «de Te, Altissimo, porta significatione».

Si rimane sopresi poi nello scoprire che Francesco scrive il Cantico non in un momento spensierato e sereno della sua vita. Al contrario, lo scrive due anni prima della sua morte, quando era ormai segnato pesantemente nel corpo da innumerevoli malattie invalidanti, in particolare era colpito da una malattia agli occhi che gli rendeva assai dolorosa la sola vista della luce. È inevitabile allora domandarsi: come è possibile che l’Assisiate innalzi una preghiera a Dio proprio per il sole e per il fuoco, la cui vista gli era insopportabile? Come poteva lodare Dio per la realtà, la luna e le stelle, se ormai non aveva più la possibilità di vederle, essendo ormai quasi totalmente cieco?

Il modo con cui Francesco percepisce il reale è frutto del suo dramma con Dio: egli scrive questo testo dopo aver ricevuto l’impressione delle stigmate sul monte della Verna. A questo proposito aveva detto Benedetto XVI: «Il suo cammino di discepolo lo aveva portato ad una unione così profonda con il Signore da condividerne anche i segni esteriori del supremo atto di amore della Croce».

Solo allora, Francesco, immedesimato con Cristo redentore, guarda in modo nuovo l’opera del Padre creatore e riconosce la positività ultima di tutte le cose. Francesco non esalta una realtà ideale, ma riconosce che tutto è positivo perché tutto è in Cristo segno di Dio, «tutto in Lui sussiste». In Francesco troviamo ben di più di un ambientalista; troviamo espressa la coscienza dell’uomo redento di fronte alla realtà.

Colpisce, poi, che Francesco nel suo cantico non si fermi ad innalzare la lode con e per tutte le creature, ma consideri alcune situazioni. Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo Tuo amore: qui emerge l’uomo di pace e di riconciliazione - cui ha fatto riferimento Papa Bergoglio nell’indicare i motivi della scelta del suo nome - perché annunciatore di Cristo, nostra vera pace. Non a caso Francesco nel suo Testamento dice che il Signore stesso gli rivelò che dovesse salutare tutti con le parole: «il Signore ti dia pace». La pace è tale solo se è da Dio. Non c’è pace senza perdono e riconciliazione; non c’è pace senza misericordia.

Infine, Franesco loda Dio per coloro che «sostengo infirmitate et tribulatione». Come si vede, anche qui non c’è nulla di idealistico. L’uomo dà lode a Dio nel vivere il dramma della propria vita quotidiana, fin nel suo limite. In tal modo il cantico può pronunciare l’espressione più disarmante: Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale. La morte è chiamata “sorella”. Dunque la vita che loda Dio è proprio quella reale, segnata dal limite.
Questo amore per la vita reale è possibile solo per chi ha incontrato Cristo. Mettersi alla sua sequela permette la riconquista della vita. Restituisce l’umano a se stesso. La familiarità con Cristo ha reso san Francesco capace di abbracciare la realtà fino alla fine.

Le fonti agiografiche ci raccontano che il Cantico viene scritto nel momento in cui Francesco ha la certezza di aver ricevuto in eredità il regno di Dio: «Egli infatti - dice ai suoi compagni - si è degnato nella sua misericordia di donare a me, suo piccolo servo indegno ancora vivente quaggiù, la certezza di possedere il suo Regno». Il Cantico è dunque espressione della lode del Povero che riceve già fin d’ora l’eredità da Dio; egli vede tutte le creature come “eredità” filiale.

La posizione umana che il cantico ci rivela indica un rapporto redento e definitivo con tutte le cose. La morte, percepita come il punto che contraddice ogni nostro rapporto con la realtà, appare come la “sorella” che rende definitivamente evidente ciò che nella vita ormai era già iniziato, l’eterno nel tempo.

Sono assai significative le parole con cui Chesterton descrive la morte del santo di Assisi: «Infine sotto il portico della Porziuncola fu una improvvisa calma, nella quale le brune figure stettero immobili come statue di bronzo: perché si era fermato quel grande cuore che non s'era infranto fin quando non contenne il mondo».

*cappuccino