Monsignor Pennisi durante la celebrazione.

«Voglio servire Cristo in umiltà e semplicità»

Dal 26 aprile monsignor Michele Pennisi è Vescovo di Monreale. Si rivolge ai fedeli con un augurio: «Spero di poter fare come il Papa: stare con la gente e tra la gente, per annunciare un cristianesimo vivo e necessario all'uomo di oggi»
Francesco Inguanti

«Nel corso della mia esperienza pastorale più volte ho paragonato il servizio che svolgo per la Chiesa a quella dell’asinello che portò Gesù in groppa nel suo ingresso a Gerusalemme la domenica delle Palme. Spero di mantenermi fedele sempre a questa immagine: servire Cristo e la Chiesa in umiltà e semplicità», così si è presentato monsignor Michele Pennisi il 26 aprile, giorno del suo ingresso nella sua nuova sede vescovile di Monreale.

Sessantasette anni, nato a Licodia Eubea, nei pressi di Caltagirone, patria di don Luigi Sturzo, di cui è uno dei più grandi conoscitori, monsignor Pennisi giunge a Monreale dopo undici anni trascorsi alla guida della diocesi di Piazza Armerina. Ha ricevuto il pastorale, dono dei fedeli monrealesi, sotto l’abside in quella che per molti è la più bella chiesa del mondo. «Il Cristo pantocratore che domina con il suo sguardo penetrante e con il suo abbraccio dall’abside di questo duomo - ha affermato nell’omelia - ci dice che questa Cattedrale, prima di essere di un Vescovo o di una città, è di Cristo. Appartiene a Lui e in questo luogo Egli è presente; parla attraverso la voce dell’Apostolo, santifica e conferma nell’unità il suo popolo. Nessuno, perciò, può dire “la mia” o “la nostra” Cattedrale».
Monsignor Pennisi ha alle spalle una lunga esperienza educativa e formativa come Rettore del Seminario Vescovile di Caltagirone e dell’Almo collegio Capranica a Roma dal 1977 al 2002. Vanta anche una intensa attività didattica e scientifica, oltre che una imponente mole di pubblicazioni, molte delle quali legate al pensiero e all’opera di don Sturzo.

Molti osservatori hanno voluto leggere nella sua elezione alla guida della diocesi monrealese il riconoscimento del suo impegno antimafia che gli fu cucito addosso, suo malgrado, quando rifiutò di celebrare solennemente il funerale di un boss della mafia gelese. «Non sono e non sono stato mai un Vescovo antimafia», spiega: «L’atteggiamento pastorale verso i mafiosi non può che essere d’incompatibilità tra mafia e vita cristiana. Ma non basta: bisogna prevenire i fenomeni criminosi ed aiutare i mafiosi a pentirsi, a riparare il male fatto e a diventare persone nuove, come Giovanni Paolo II ha detto con il suo grido ad Agrigento nel 1993».

La celebrazione in duomo è stata presieduta dal cardinale di Palermo Paolo Romeo, presidente della Conferenza Episcopale Siciliana insieme otto vescovi delle diocesi siciliane e ad oltre 300 sacerdoti. A chi gli ha chiesto le linee guida del suo programma pastorale ha risposto di non averne alcuna prestabilita, ma di volerla costruire con quanti vorranno collaborare alla sua opera. Ma non ha mancato di richiamare tutti ad un rinnovato impegno. «Si tratta di passare da un cristianesimo convenzionale di “atei devoti”, per i quali Dio è un intruso che non entra nella vita quotidiana, ad un cristianesimo maturo fondato su una fede autentica, da una appartenenza ecclesiale debole ad una appartenenza responsabile caratterizzata dalla risposta generosa alla chiamata di Dio e dalla partecipazione attiva ed efficace di tutti nella testimonianza evangelica che scaturisce dalla capacità di leggere i segni dei tempi».

Ha parlato anche di Papa Francesco, incontrato tre volte: «Spero di poter fare come lui sta già facendo: stare con la gente e tra la gente, per annunciare un cristianesimo vivo e necessario all’uomo di oggi».
La parte conclusiva della sua omelia è stata dedicata a don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia perché fedele al suo ministero di prete e che sarà beatificato il prossimo 25 maggio. «La memoria di questo martirio è impegnativa per la Chiesa siciliana tutta - ha detto -. Il suo martirio è venuto a siglare questa stagione di impegno ecclesiale anche se questo martirio non va disgiunto e isolato da quello di numerosi altri uomini tra cui vari magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine e della società civile. Non bisogna abbassare la guardia per contrastare la criminalità mafiosa, ma i cristiani devono trovare motivazioni valide per contrastare questo fenomeno a partire dalla loro originale esperienza di fede e dalla loro appartenenza ecclesiale».
Per ultimo il pressante invito rivolto a tutti: «Ho scelto come mio motto programmatico una frase di san Paolo: “Caritas Christi urget nos”. Vi invito a farlo vostro nella vita di ogni giorno».

A quanti nel congedarsi gli hanno augurato buon lavoro, non nascondendo la difficoltà che questo certamente comporterà, ha citato la parte finale della Lettera Apostolica di nomina: «Venerabile fratello… pensa opportunamente quanto sia dolce lavorare per Cristo e con Cristo nel suo campo; è questa la dolcezza dell’amore, il quale fa si che le cose pesanti diventino leggere e l’animo sia sempre nuovo nell’affrontare le attività».