Don Pino Puglisi.

«Adesso è come averlo a tavola con noi»

Ad una settimana dalla beatificazione, Palermo non è più la stessa. C'è una grande voglia di cambiamento, ma da dove partire? Ed è proprio il sacerdote siciliano ad indicare la strada: «Prima di tutto un cambiamento del cuore»
Francesco Inguanti

Ad una settimana dalla beatificazione di don Pino Puglisi a Palermo, evento di grande impatto mediatico ed emotivo, torna una domanda: cosa è cambiato? Cosa può cambiare? Cosa deve cambiare?
L’affermazione di Benedetto XVI, nel documento Porta fidei, secondo cui i cristiani si danno maggiore preoccupazione «per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare la fede come un presupposto ovvio del vivere comune», ci sta davanti in tutta la sua chiarezza.
Eppure, don Pino ha testimoniato proprio il contrario. Il suo instancabile impegno per migliorare le condizioni di vita degli abitanti di Brancaccio era una chiara conseguenza della sua fede. La sua preoccupazione per i risultati da conseguire veniva sempre dopo: mirava prima al cambiamento del cuore di quanti incontrava, mafiosi compresi, pur non disinteressandosi degli obiettivi da raggiungere.

Ciò non ne oscura la figura che proprio per la sua santità e per la sua notorietà costringerà a rivedere molte cose, compreso un certo tipo di presenza della Chiesa che molti vorrebbero cambi dall’oggi al domani attraverso piani pastorali e progetti culturali. La Chiesa siciliana, proprio a partire da quel tragico 1993, ha compiuto significativi e decisivi passi nella lotta alla mafia, facendo proprio innanzitutto l’accorato appello di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi.
Tuttavia, permane ancora un certo tipo di pastorale, spesso ripetitiva e scontata, preoccupata più di dare servizi religiosi, pur legittimi e necessari, che di trasmettere la fede, che, come ripete il Papa, sembra gestita più da operatori di organizzazioni umanitarie che da testimoni del Vangelo. Insomma, c’è bisogno di una nuova azione missionaria che vada verso le periferie, che deve nascere da un cambiamento del cuore in grado di generare un nuovo modo di pensare, di essere e di agire.

E l’avvenimento di sabato scorso richiama tutti ad un impegno innanzitutto personale che non può attendere né nuovi piani pastorali né nuovi progetti culturali. Don Pino ha messo in moto proprio questo rinnovato desiderio, attestato dai tanti giovani, che hanno riconosciuto come la sua testimonianza, proprio perché accresciuta dal valore della santità, non può essere relegata nel recinto del buon esempio civile, pur lodevole e apprezzabile.
La figura di don Pino si affianca così ai tanti santi siciliani (alcuni anche martiri) che proprio Benedetto XVI a Palermo aveva additato ai giovani nel suo saluto a piazza Politeama come esempio da seguire. Santi di tutti i giorni, che vivono la vita di tutti e proprio per questo possono aiutare tutti. Solo da questa rinnovata decisione personale può nascere anche la scelta di tradurre in termini più organici e operativi il senso del martirio di don Pino. Fare il contrario significa ripetere vecchi sentieri che non sempre hanno dato soluzioni efficaci. Ma don Pino nel suo quartiere si faceva guidare dalla fede, dalla preghiera e dallo studio della condizione dei parrocchiani. La sua azione pastorale non dipendeva da programmi e progetti fatti a tavolino.

Il parroco della Cattedrale da lunedì deve fronteggiare una nuova piacevole emergenza: alla coda dei turisti in fila per visitare le tombe dei re normanni si affianca quella dei fedeli che vengono a pregare sulla tomba del beato don Pino Puglisi. Anche questo è un nuovo piccolo miracolo. La gente prende il santino con il luminoso sorriso del beato e va via. Un signore visibilmente commosso dice: «Da una settimana a casa mia prima di pranzo recitiamo la preghiera che sta su questa immaginetta. È come se don Pino pranzasse con noi. Questo per noi vuol dire avere un nuovo santo in Paradiso».