Adriano Fabris.

«Il centro sta nell'apertura»

Unico italiano al convegno della Gregoriana sulle sfide della nuova evangelizzazione. Il filosofo Adriano Fabris racconta di Dio, del senso e degli universali. E di quando si appassionò alla conoscenza, facendo il chierichetto
Alessandra Stoppa

«Il peggior servizio che possiamo fare alla Chiesa e al Papa è quello di trasformare l’annuncio in una teoria». Adriano Fabris, docente di Filosofia morale all’Università di Pisa, rappresenta il nostro Paese nel dialogo internazionale sulle sfide della nuova evangelizzazione: è l’unico filosofo italiano al convegno della Pontificia Università Gregoriana “Rinnovare la Chiesa in un’epoca secolare” che si svolge oggi e domani, a cinquant’anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II. In questo dialogo con Tracce.it spiega l’importanza di comunicare ad extra. «Proprio come faceva don Giussani, nella sua vocazione missionaria», e come di continuo ci richiama papa Francesco: «Il suo invito ad uscire dal nostro centro autoreferenziale. Siamo poi così sicuri di essere noi il centro? Proprio quando riteniamo di esserlo, in realtà questo centro lo abbiamo perso». Perché «il centro sta nell’apertura».

In che senso?
Il centro sta nella relazione. Nell’esposizione ad altro da me. L’essere umano, se è pensato per com’è davvero, non è solo. La sua identità (nome e cognome) parla già di una relazione e il suo destino è un destino di amicizia, non già di solitudine. Ma ci deve essere una dimensione di senso per accorgersi di questo, perché la domanda di senso è apertura, mi apre alla consapevolezza che oltre a me c’è ben altro. Il problema è che, oggi, la prima grande confusione è proprio sul senso.

Che viene negato?
No, non è più riconosciuto come qualcosa fuori di noi. Si parla sempre più spesso del senso in maniera impropria, come se coincidesse con la spiegazione. Cosa significa spiegare? Esplicare. Mettere tutto sullo stesso piano, concepire tutto come causa ed effetto: cioè, quello che io faccio, produce degli effetti. Non si cambia mai livello, in questo modo, tra esplicante ed esplicato. Quando una persona è malata, per esempio, si chiede: perché? La logica della spiegazione dà tantissime risposte alla malattia. Ma non è la risposta che cerca. Giobbe non chiede una spiegazione: i suoi amici gli propongono delle spiegazioni: «Avrai peccato tu, avrà peccato qualcuno prima di te...». No, lui vuole sapere: perché proprio a me? Qual è il senso di ciò che mi accade nell’economia del tutto, alla quale io partecipo? Quindi, per prima cosa, non bisogna confondere la richiesta di spiegazioni con la domanda di senso. La spiegazione si muove sempre sullo stesso livello, mentre il senso indica un punto di riferimento che illumina, come una stella, ed è per forza di un altro livello. Allora, se è su di un altro livello, non sono io a crearlo, ma mi si manifesta: il senso della vita è dato, se non è dato, non è.

Oggi questo non è più evidente.
Nietzsche è arrivato a dire: «Dio è morto. Siamo noi che lo abbiamo ucciso». Io faccio, io disfo. Già sessant’anni prima di lui, Jean Paul scriveva: «Se io sono il padre e il creatore di me stesso, posso essere anche il mio distruttore». Profetico. L’eclissi del senso ha proprio le conseguenze che vediamo oggi. E questa eclissi è il venir meno della capacità di essere coinvolti in qualcosa che non dipende da me, di sentirsi e di pensarsi in relazione ad altro, ad un altro che non posso controllare. Invece, ciò che si manifesta in maniera evidente, nella mia esperienza quotidiana, è quanto meno l’incapacità di controllare ciò che conta per me, che mi costituisce e con cui sono comunque in relazione. Viviamo in un’epoca in cui le nuove tecnologie sembrano in grado di appagare tutti i nostri desideri, ma basta un imprevisto e ci rendiamo conto che non tutto può essere controllato. Ci troviamo disorientati. E allora si ripresenta la possibilità d’interrogarci sul senso di ciò che ci accade. Perché questa gioia insperata? Perché questa malattia improvvisa? Perché la fortuna d’incontrare questa persona insieme alla quale voglio vivere tutta la vita? Ponendomi queste domande, esprimo l’evidenza di quella relazione coinvolgente che mi costituisce.

Qual è la strada per riconquistare la familiarità con questo “essere in relazione”?
Il riconoscimento è tutto affidato alla libertà dell’essere umano. Se si trattasse di una necessità, non ci sarebbero “problemi”: ma tale conquista non avrebbe nessun valore, nessuna importanza. Il pericolo più grande è che il discorso sul senso venga considerato puramente un discorso, solo un insieme di parole. Uno dei punti sul quale papa Francesco insiste sempre, infatti, è che non basta “dire”. Bisogna anzitutto coinvolgere attraverso ciò che si fa. Bisogna mostrare chi si è attraverso ciò che si fa. Non c’è dunque una ricetta, ma meno male che non c’è. Viviamo nell’epoca in cui sembra che tutto possa essere governato da una procedura: si pensa di risolvere il problema dell’uomo con le procedure. Ma l’agire dell’essere umano è anzitutto altro: è capacità di valutare, di riflettere, di scegliere. Ed è bene così, perché ciò che uno fa ha più valore grazie al fatto che sceglie di farlo.

La fede come incide nel suo lavoro e nella sua vita?
È un’esperienza strana. Ma forse strana è un termine ancora riduttivo. In realtà, nelle cose che penso, che faccio, che studio, alla fine sempre ritrovo qualcosa di solido, di duro. E questo “duro” è qualcosa che è stato espresso e vissuto nei Vangeli. Uno può benissimo partire da una prospettiva estranea, lontana, ma alla fine incontra, prima o poi - ma sempre -, qualcosa che ha già trovato lì. E ciò accade non perché so di doverlo trovare. È una sorpresa costante. Ci arrivo per le strade più diverse.

Può fare un esempio?
Pensi alla categoria dell’universalità, e alla riflessione che si è sviluppata su di essa e sul modo migliore di gestirla. Si tratta di una categoria filosofica che troviamo già elaborata in Platone, nella dottrina delle idee. Ma oggi è un tema fondamentale: per esempio la risposta alla domanda su che cosa è “bene” dev’essere una risposta che vale universalmente. “Bene”, in altre parole, è qualcosa di condiviso da tutti, universale, o non è bene. Proprio per venire incontro a questa esigenza, Platone escogita un mondo completamente astratto, ipostatizzato, in riferimento al quale ha valore di ciò che esiste. Ma in realtà, noi non viviamo così. Noi viviamo il tentativo molto concreto di cogliere l’universale in ciò che facciamo tutti i giorni, di sperimentarlo nei particolari da cui siamo circondati. Non si tratta di ricercare una dimensione separata, altra, ma di trovare nel concreto il segno di ciò che lo trascende. Questo è possibile solo in quanto vi è qualcosa di universale che si è manifestato nel particolare e in virtù del quale il particolare è quello che è. Ebbene: questa dinamica è proprio la stessa che si compie nell’incarnazione. È il movimento di un Dio che si è fatto carne, e che in tal modo non solo dà significato al particolare, al concreto, al contingente, ma rende ogni particolare suscettibile di essere riportato alla dimensione di universalità che di esso è propria.

Come nella sua vita il senso ha preso un volto?
Io sono cresciuto all’interno di una dimensione cattolica. Non c’è stato mai un salto, uno stacco. Quello che è capitato a me è stata l’esperienza di una presenza che mi ha accompagnato da sempre, e che cerco sempre di approfondire. Attraverso la mia vocazione per la filosofia, ho imparato a farmi domande serie, che non possono avere già una risposta preconfezionata. Per cui in un percorso spregiudicato, attraverso una ricerca fatta senza sconti, anche dolorosa, può accadere di imbattersi in qualche cosa che non è stato escogitato dall’essere umano e che tuttavia lo coinvolge: con qualcosa che la filosofia non può creare, ma che può riconoscere. La filosofia, fra l’altro, serve a criticare la mentalità comune, le ideologie ancora fin troppo diffuse, a purificare i nostri pensieri e a riconoscere quello che è il duro, il solido, il bello, il vero, il buono: ciò che desideriamo realmente.

Come è nata la sua passione per la filosofia?
Io vengo da una famiglia di persone molto pratiche. Più precisamente persone che lavoravano il ferro, l’acciaio (il mio stesso cognome rimanda a questo mestiere). Mio nonno aveva una fonderia che è andata distrutta dalla guerra, mio padre era ingegnere nei laminatoi. A me è sempre interessato, invece, cercar di capire le cose. È stato fondamentale l’incontro con il mio parroco, a Genova: facevo il chierichetto e ricordo che, quando avevo preparato tutto per la messa e non avevo più niente da fare, lui mi diceva: «Sta’ lì, pensa», cioè rifletti su quello che stiamo per fare. Su di me, questo invito a pensare, a pensare ciò che non sono io a istituire, ha lasciato il segno.