Il coraggio dei gesti e dei silenzi

Il vaticanista di Sky Tg24, Stefano Maria Paci, fa un bilancio del pellegrinaggio di Papa Francesco. Gli abbracci, le parole, l'abilità anche diplomatica. Una creatività che va al di là delle normali prudenze vaticane
Luca Fiore

Il Papa è tornato a Roma. E a Gerusalemme la vita continua come sempre. Anche se le immagini dei giorni del pellegrinaggio di Francesco in Terra Santa non saranno dimenticate facilmente. Sulle rive del Giordano, nel piazzale della mangiatoia a Betlemme, di fronte al muro di separazione al confine dei Territori palestinesi, ai piedi del Muro del pianto, in ginocchio al Santo Sepolcro al fianco di Bartolomeo I, allo Yad Vashem... I gesti e i silenzi, prima ancora delle parole. Ma anche le parole: chiare, senza equilibrismi, a volte lapidarie. A seguire il Santo Padre c’era anche l’inviato Stefano Maria Paci, vaticanista di Sky Tg24. Che prova a fare un bilancio di questo viaggio storico.

Che cosa l’ha colpita di più in questi giorni?
Il coraggio di papa Francesco. È capace di compiere gesti senza concordarli con gli uffici vaticani, sempre molto prudenti. Penso allo storico invito in Vaticano dei Presidenti di Palestina e Israele per un momento di preghiera e di dialogo per la pace. È un’iniziativa che ha spiazzato tutti. È un invito impossibile senza un accordo preliminare, accordo che mi è stato confermato da più fonti. Tuttavia lui e il cardinale Pietro Parolin riescono a decidere col cuore e la fede, senza troppi impacci diplomatici. E poi mi ha colpito il momento commovente della preghiera del Papa e di Bartolomeo I in ginocchio sulla pietra del Santo Sepolcro. Come a dire che l’unità si può fare solo tornando alle origini.

Alcuni gesti sono stati forti. Le polemiche erano dietro l’angolo...
Un po’ di polemiche, in realtà, ci sono state. Tanto che il giorno dopo essersi fermato al muro della discordia a Betlemme, Benjamin Netanyahu ha chiesto al Papa, di fatto lo ha obbligato, ad andare di fronte alle lapidi in memoria delle vittime del terrorismo. Il Papa, naturalmente, ha accettato. La visita alla tomba del fondatore del sionismo, Theodor Herzl, da tre anni è obbligatoria per i capi di di Stato in visita in Israele. E questo spiega perché Benedetto XVI non ci andò. Papa Ratzinger, quando andò a Betlemme, fece mettere il palco contro il muro di separazione in modo che le televisioni di tutto il mondo lo inquadrassero. Francesco ha scelto di fare un fuori programma e sostare in silenzio nei pressi del muro. C’era già stato l’invito ai due presidenti e, probabilmente, sapeva che quel gesto non avrebbe suscitato clamore. Poi, il giorno dopo ha evitato un possibile incidente diplomatico...

Quale?
Era previsto un incontro privato con il primo ministro israeliano. Netanyahu ha iniziato a parlare, quando le telecamere erano ancora presenti, e padre Pizzaballa traduceva al Papa. Ha parlato della necessità del muro, ha detto che se non ci fosse il terrorismo la barriera non esisterebbe, ha sottolineato che in Israele i cristiani sono protetti mentre nei Paesi arabi sono costretti a fuggire... Le telecamere stavano registrando. Qualsiasi cosa avesse risposto il Papa, anche una reazione di pura cortesia, avrebbe dato adito a polemiche. Francesco se n’è reso conto. Ha guardato Netanyahu, ha guardato le telecamere e poi ha chiesto: «Questi colloqui non dovrebbero essere privati?». Le telecamere sono state fatte uscire. Francesco è stato molto abile.

Qual è stata la reazione dell’opinione pubblica locale?
Le reazioni sono state molto positive. Un vero successo. Il Papa riesce a parlare con i gesti e con le parole. Soprattutto con gesti silenziosi, che sono quelli che rimangono negli occhi non solo dei giornalisti ma anche alla gente. La preghiera al Muro del pianto, gesto compiuto anche dai due predecessori, ha avuto un che di inedito. Voltatosi, Francesco ha abbracciato il suo amico rabbino di Buenos Aires e il rappresentante islamico argentino che aveva voluto al suo fianco per tutto il viaggio. Si tratta di un’intelligenza anche politica. Bergoglio è un Papa che appare semplice, ma che si mostra come un abilissimo diplomatico. L’abbraccio al muro del pianto è un’immagine-simbolo, che dice non solo che è possibile la pace tra le religioni, ma che le religioni sono chiamate a costruire la pace.

Quello in Vaticano con Peres e Abu Mazen sarà un momento di sola preghiera. È un escamotage?
Non è il compito del Papa organizzare trattative di pace, sarebbe stata un’ingerenza. L’invito è a un momento di preghiera, che naturalmente si trasformarà anche in qualcosa di diverso. Ma è significativo che, nel testo distribuito sotto embargo a noi giornalisti, non ci fosse la frase dell’invito. Ho parlato con la persona che ha tradotto in israeliano e in arabo il testo e mi ha detto che quel passaggio era stato tradotto da diversi giorni. C’è stata molta cautela, perché si temeva che se la notizia fosse stata diffusa in anticipo qualche cancelleria internazionale avrebbe potuto bloccare l’iniziativa.

Qual è l’accento nuovo emerso dall’incontro con Bartolomeo I?
Credo che la chiave di lettura stia in quanto detto nella conferenza stampa sul volo di ritorno. Il Papa ha detto che Bartolomeo gli ha ribadito quanto Atenagora disse a Paolo VI: «Chiudiamo tutti i teologi su un’isola e incontriamoci noi due». Ma la questione è anche la sottolineatura dell’apertura al dialogo sul primato di Pietro. Francesco ha parlato di una forma «di esercizio del ministero proprio del Vescovo di Roma che, in conformità con la sua missione, si apra ad una situazione nuova». Ne avevano parlato sia Giovanni Paolo II che Joseph Ratzinger, ma il fatto di tornare su questo punto, proprio durante l’incontro ufficiale con Bartolomeo, dà una spinta in avanti a questo processo di riavvicinamento. Bisognerà aspettarsi nuove sorprese. In fondo il fatto di presentarsi al mondo come «il vescovo di Roma», piuttosto che come «Papa» ci ha fatto capire che è una cosa a cui Bergoglio tiene molto. Per lui la divisione tra i cristiani resta «uno scandalo». Lo stessa basilica del Santo Sepolcro, uno dei luogo più sacri per la cristianità, è anche il luogo in cui questa divisione si fa più evidente. Basti pensare alle immagini di qualche anno fa in cui abbiamo visto i religiosi prendersi a colpi di candelabro...

Quale messaggio lascia ai cristiani di Terra Santa?
Il Papa ha chiesto ai responsabili del popolo palestinese e israeliano di non fare nessuna discriminazione nei confronti dei cristiani. I cristiani vogliono partecipare, devono partecipare, alla costruzione del bene comune, perché sono cittadini come tutti gli altri. In realtà ci sono molti problemi a questo livello. Ma credo che ciò a cui la Chiesa tiene di più sia fermare l’esodo da queste terre. I cristiani qui si sentono non solo una minoranza, ma una minoranza spesso perseguitata. Per questo assistiamo a un esodo terribile dalla terra di Cristo. Il rischio è una Terra Santa senza più cristiani. Uno dei primi obiettivi di questo viaggio era confortare i fedeli di questa regione, dar loro coraggio, fargli percepire la loro responsabilità. Ma anche mostrare al mondo che la situazione è tranquilla e che i fedeli possono venire in queste regioni come turisti e come pellegrini. Sostenere questa regione, anche economicamente, è un modo perché le tensioni si attenuino.