Monsignor Joseph Alessandro, vescovo di Garissa.

Garissa, un anno dopo

Monsignor Joseph Alessandro, vescovo della città, racconta la lenta ripresa della vita quotidiana dopo l'assalto del 2 aprile 2015. Mesi di incontri, dialoghi. Spesso difficili. Ma anche nuove amicizie con i musulmani
Andrea Avveduto

«Grazie al cielo sono sempre sostenuto dalla comunità locale, e ho la compagnia dei miei fratelli cristiani accanto. Sono davvero un aiuto prezioso, non so come farei altrimenti». È passato un anno da quel 2 aprile, Giovedì Santo, quando un gruppo di terroristi Al-Shabaab fece irruzione in quel collegio universitario. Chiesero a ogni studente di recitare un versetto del Corano. Chi non rispondeva, cioè i cristiani, veniva ucciso. Centocinquanta i morti, 79 i feriti. Monsignor Joseph Alessandro, vescovo di Garissa, cappuccino, classe 1949, oggi torna col ricordo a quei momenti. E racconta, senza reticenze, il lento “ritorno alla normalità” della sua diocesi.

Eccellenza, che cosa è cambiato nella sua diocesi dal 2 aprile 2015?
Tante cose. L’università e altre strutture educative, come il collegio per infermieri o la scuola tecnica, sono state chiuse per diverso tempo. L’università è stata riaperta solo il 4 gennaio. Ma pochi hanno ripreso davvero a frequentare, la grande maggior parte degli studenti sono della tribù somala e di religione musulmana. I cristiani sono cinque in tutto. Tanti hanno preferito trovarsi un lavoro e vanno in Università solo per fare gli esami... Non c’è stata una grande ripresa. Gli studenti hanno paura di iscriversi e molti stanno aspettando il nuovo anno accademico, che partirà a settembre, per ricominciare.

Dopo la strage sono cambiati anche i rapporti tra cristiani e musulmani?
I rapporti tra cristiani e musulmani prima dell’incidente erano molto buoni. Dopo, si è insinuata una certa diffidenza. Ma bisogna dire anche che tanti musulmani si sono resi disponibili ad aiutare il Governo per combattere il terrorismo. Anche qualche mese fa, a Mandera, quando i terroristi hanno fermato un pullman e volevano dividere i cristiani dai musulmani, sono stati proprio questi ultimi a mettersi in difesa dei cristiani. Hanno detto ai terroristi: «O salvate anche loro o ci ammazzate tutti!».

E dopo cos’è successo?
Nei giorni successivi abbiamo organizzato una conferenza stampa vicino alla chiesa e abbiamo invitato moltissime persone: avevamo il desiderio di riconoscere il gesto valoroso compiuto da quei musulmani che non avrebbero esitato a dato la vita per i loro fratelli cristiani. È stata un’occasione importante per riaffermare che la religione non deve dividere, ma che, anzi, esiste anche per farci vivere con più tranquillità e in pace tra noi. Per questo abbiamo avviato da un paio d’anni un progetto che mette al centro il dialogo tra cristiani e musulmani e ogni tanto organizziamo alcuni incontri tutti assieme. Siamo chiamati a vivere insieme e per questo dobbiamo lavorare: per noi e per il bene del Paese. Devo aggiungere una cosa, importante: la visita del Papa in Africa a novembre ha migliorato molto i rapporti tra cristiani e musulmani.

Come vivono i cristiani di Garissa?
Tra le famiglie esiste ancora un po’ di paura. Il numero di chi viene regolarmente in chiesa è sceso, purtroppo, alcuni sono addirittura scappati via dal Paese (anche se stiamo assistendo progressivamente a un ritorno) e altri hanno paura di partecipare alla messa, per paura di essere colpiti. A queste note negative bisogna, però, aggiungere che la sicurezza è aumentata molto. E a Mandera, la città colpita di recente dall’attentato, c’era la chiesa piena, quando sono andato ad amministrare le ceneri il primo giorno di Quaresima.

Che cosa rende possibile il dialogo tra cristiani e musulmani dopo un fatto come quello dell’anno scorso?
È necessario partire da certi valori “umani”, che sono anche valori evangelici. Prima di tutto il valore della vita, e poi quello del rispetto, del perdono, della solidarietà. Dobbiamo iniziare da questi, che sono valori accettati da tutti. Negli incontri parliamo di come possiamo aiutare e far progredire la nostra gente. E allora il dialogo diventa possibile, perché sul bene comune tutti sono d’accordo, almeno come impeto. E poi, col tempo, quando si crea un’amicizia, una fiducia reciproca, allora anche la pace diventa concreta.

E la sua vita, la sua fede, come sono cambiate durante quest’anno?
Sento ogni giorno di più il bisogno di offrire la testimonianza attraverso la mia presenza. Per questa ragione sono andato a Mandera, e vado dove la gente mi chiama. Vedere i cristiani in chiesa, vederli rischiare la vita per venire a messa, mi incoraggia a fare la mia parte. Così, durante quest’anno, sono stato più presente con la gente, sono diventato più amico con i musulmani. E mi affido, sempre. Nella Provvidenza divina e nella certezza di Dio.