Giovanni Paolo II nel suo ultimo Venerdì Santo.

Il suo fotografo: «Mi ha trattato come un figlio»

Un'intera vita a seguire con i suoi scatti sei pontefici. Da Pio XII a Benedetto XVI. Tra questi, uno gli ha rivoluzionato l’esistenza, come «dalla notte al giorno». Il racconto di Arturo Mari. E di quel Papa che gli «ha segnato la strada»
Alessandra Stoppa

Se chiedi ad Arturo Mari, fotografo personale di sei Papi, perché Giovanni Paolo II gli ha rivoluzionato l’esistenza «dalla notte al giorno», la risposta è tutta qui: «Ho respirato la sua aria». La sua stessa presenza gli ha cambiato la vita. «Quando vivi a mezzo metro da lui per ventisette anni, se anche non vuoi capire, se pure preferisci far finta di niente, il cuore le cose le vede e le tocca. È come mettere la mano nella piaga. Perché tu pensi: sarebbe bello amarsi gli uni gli altri... E vedi lui, che ama. Vedi lui che per primo viene e ti abbraccia, ti accarezza, ti aiuta». Classe 1940, Mari ha iniziato a lavorare con Pio XII e ha continuato, senza mai un giorno di ferie (a parte l’ordinazione del figlio sacerdote), fino alla pensione, nel 2007.

Partiamo dalla fine. Dice che la foto di Giovanni Paolo II a lei più cara è l’ultima che ha reso pubblica (a sinistra), quella dell’ultimo Venerdì Santo. Perché?
Lui era sulla sedia a rotelle, quasi immobile, e seguiva la Via Crucis alla televisione. Aveva una telecamera alle spalle. In un momento di stacco delle riprese, fece cenno di volere il crocefisso. Se lo strinse a fatica al petto. E si mise a baciare Gesù, più volte, con tenerezza. In quel gesto, per me c’è la sintesi di tutto il suo Pontificato. Il centro di tutto per lui era quello: nostro Signore. E solo con il suo amore al mistero della Croce ha cambiato la storia - la mia personale e quella della Chiesa e del mondo.

Nei racconti di chi, come lei, gli è stato più vicino affiora sempre il suo rapporto con la preghiera.
La sua giornata aveva sempre come centro la Messa e la preghiera. Quando stava in cappella, in ginocchio, con la mano sulla testa, dialogava con il Signore e con la Madonna. Mi è capitato di sentirlo, e di capire cosa chiedesse: «Dio mio, aiutami Tu. Illuminami la mente, guida i miei passi. Dammi la forza». Ecco, sentivo questo: «Dammi la forza!». E poi, mi trovavo di fronte la risposta del Signore, perché io potevo fermarmi senza capire da dove prendesse la forza con cui viveva, oppure potevo pensare a quella richiesta. Dalle sei della mattina fino a sera, lo guardavo e vedevo dietro di lui due mani che lo spingevano. Io, più giovane, mi sorprendevo di ciò che si trovava ad affrontare, dei ritmi e della mole di lavoro, che davvero non si possono immaginare. Lui era sempre lì, come se niente fosse. Comunque, evitavo il più possibile di fotografarlo quando era in preghiera. Sono rare le foto di quel tipo. Perché non era lì, in quei momenti, il mio posto. Non potevo toccare quel punto di rapporto, mentre parlava con Cristo.

Cos’ha significato per lei fotografarlo?
Sa, ho fatto circa sei milioni di scatti a Giovanni Paolo II, ma quando lo inquadravo non ho mai visto un gesto uguale all’altro. È la grande risorsa che ho trovato in lui...

È anche la sua attenzione, il modo con cui lei lo ha guardato.
Sicuramente ho sentito il suo carisma con il mio cuore. Mi spiego. Non era solo essere concentrato e pensare: ora si gira, ora non si gira... No, era seguire il suo sguardo, il suo movimento, la sua personalità.

Com’era il rapporto tra voi?
Mi ha sempre trattato come un figlio, mai come un dipendente. Come uno di famiglia. Mi ha anche insegnato cosa deve fare il padre di un sacerdote. Con molta semplicità, mi ha spiegato di aiutare mio figlio da dietro le spalle. Solo con l’esempio, aiutarlo. Allora quando ti trovi davanti tuo figlio che in qualche modo ti chiede: “Pensi che ce la farò? Che sarà della mia vita? Pensi che sono forte, che sono bravo?”. Cosa ti metti a dirgli: “Sei bravo”? No. “Questa vita sarà un sacrificio, dovrai dare, dare, dare... Ma la vita non è tua, è per essere data”. Questo ha fatto Wojtyla con noi: da prete, da monsignore, da vescovo, da cardinale, da Papa. Ha dato se stesso. E la cosa più bella era il suo modo umano di toccare i problemi.

In che senso?
Voleva andare nei posti personalmente. È così che ha preso in mano le redini della Chiesa in una situazione difficile, accompagnandola nel nuovo Millennio. L’ho visto lavorare enormemente, dando tutto, con grandissima umiltà. Ha lavorato sempre e solo per una cosa: l’uomo. Nelle situazioni più personali come nei discorsi all’Onu, la prima cosa per lui era l’uomo: dignità, libertà, vita. Ho avuto l’onore di essere presente ai colloqui privati con i grandi della terra, ed era la stessa cosa.

Può fare un esempio?
Mi ha impressionato come certi politici e Presidenti si siano ravveduti davanti a lui, ripensando il proprio compito. Penso, in particolare, ad una visita pastorale in America Latina. Alla mattina, il Papa incontra i mineros. A un tratto, uno di loro scappa dalla folla, sfugge alla sicurezza e si butta nelle sue braccia: «Io ti amo, io ti seguo. Anche se sono analfabeta io capisco cosa dici». Piangeva. Poi gli ha detto: «Ma oggi io vado a casa e cosa do da mangiare ai miei figli?». E ha tirato fuori un pentolino che si era infilato nei pantaloni, dietro la schiena. Al pomeriggio, quando il Papa ha incontrato privatamente il Presidente, la prima cosa che di cui ha parlato è stata quel minero. Gli ha chiesto: «Lei che è padre della patria cosa sta facendo? I suoi figli hanno fame. Lei cosa fa? Quali possibilità ci sono?». Li trattava sempre come «padri della patria», ridando loro coscienza della responsabilità, del compito che avevano. Era l’inizio, che poi passo a passo, in certi casi, ha portato a grandi cambiamenti sociali.

Come la fine del comunismo.
Sì, gli effetti li abbiamo toccati con mano, come la semplice storia - adesso diciamo “semplice” - della Caduta del Muro. Il suo “programma” era un programma morale, di padre: questa è stata la sua rivoluzione. E il Muro è caduto perché è arrivato lui ed è stato un punto riferimento per tutti. Il frutto è che la gente ha ritrovato la libertà di parlare, camminare, mangiare, credere: parliamo dell’esistenza di milioni di persone! Una cosa del genere è un miracolo vivente. Lui che conosceva la sofferenza, che sapeva cosa vuol dire perdere i genitori, vivere sotto il regime, non essere libero, non avere il passaporto, non poter parlare se no altri pagano per te, non poter fare questo o quello... In tutto questo ha vissuto il Vangelo, ci ha lavorato sul Vangelo, e allora ha potuto iniziare il Pontificato dicendoci: «Non abbiate paura!». E si è messo a disposizione per noi, per farci vivere meglio la vita. Lui ha dato la svolta, perché noi lo seguissimo.

Cosa vuol dire per lei, oggi, seguirlo?
Sapere che tocca a noi. Non possiamo lasciar scorrere tutto come se niente fosse. Non possiamo non lavorare sul fatto che stiamo bene. Se con l’andare del tempo ci dimentichiamo... E noi ci dimentichiamo troppo facilmente delle cose. Quando abbiamo necessità diciamo: aiuto, aiuto, aiuto! Poi, quando le cose vanno bene, lasciamo andare tutto. Ma per mantenere il bene, bisogna muoversi. Se il mondo oggi è in un certo modo, e prima non era così, devo guardare la storia e capire cosa lo ha permesso.

Lei come fa?
Lui mi ha segnato la strada. Se sto bene, devo sapere perché. Se no, perdo tutto. Se ti accontenti che stai bene e basta, campi due giorni. Allora mi chiedo: come sto oggi? Come vivo oggi? Che cos’è successo? C’è una storia e devo guardarla. Guardo il suo esempio, i suoi passi, cos’ha detto, cos’ha fatto. Perché lui ci ha dato tutto. La possibilità del credo, la libertà, ci ha dato la sua testimonianza, il suo sacrificio. È semplice. Non ci vuole tanto, sa? Bisogna solo desiderare il vero. Il sacrificio lo ha fatto lui. Bisogna comprendere e custodire ciò che ci ha dato.

E per chi non l’ha conosciuto?
L’“esempio” è successo. Come tanti altri, che sono successi. Non li hai toccati per mano? Non è un problema, c’è un altro che te li trasmette. C’è Arturo che ti dice: io ho trovato questo.

Uno dei momenti più importanti?
Per me, senza dubbio, il viaggio in Terra Santa nel 2000. Dio solo sa l’intensità di quei giorni. Stare lì con lui, vederlo con i miei occhi, dalla Basilica della Natività all’Orto degli ulivi. Non era Giovanni Paolo II. Era Gesù. Che nasce, che fa tutta la sua vita, il suo viaggio terreno, e arriva al Calvario e piange.

Il vostro ultimo saluto?
Ho avuto la grazia di entrare nella sua stanza otto ore prima che morisse. Lui era a letto, girato su un fianco. Don Stanislao (Dziwisz, il segretario personale; ndr) gli ha detto piano: «Santo Padre, Arturo è qui». Lui si è girato, lentamente, verso di me: «Grazie Arturo. Grazie mille». Non so come raccontarlo. Tu lì vedi tutta la devozione che ha nei tuoi riguardi. Aveva un sorriso... Sa cosa vuol dire un sorriso magnifico su quel volto così sofferente? Nel suo sguardo c’era un altro incontro a cui stava andando. Penserà che sono matto, ma io non sento la sua mancanza. Ho le prove che lui mi accompagna. Tutto qui: è sempre con me.