Raffaello, "San Paolo ad Atene".

ANNO PAOLINO Così il Papa ci fa incontrare San Paolo

Guida alle catechesi che Benedetto XVI sta dedicando all'Apostolo delle genti.
Per farci conoscere meglio «l'evento che ha allargato il suo cuore e lo ha reso aperto a tutti»
Massimo Camisasca

Il 29 giugno dello scorso anno il Papa Benedetto XVI ha indetto l’anno paolino, invitando tutta la Chiesa a guardare alla vita dell’apostolo Paolo e al suo insegnamento non come ad un evento del passato ma come a qualcosa che vive nel presente e parla ancora a tutti noi. La ragione esteriore di tale indizione è stata il bimillenario della nascita di san Paolo, ma quella più profonda sta nel convincimento del Papa che la vita e la testimonianza del grande Apostolo possono costituire un’occasione di rinascita per tutta la Chiesa.
Benedetto XVI ha voluto e vuole accompagnare il corso dell’anno paolino con una serie di riflessioni che sta svolgendo durante l’udienza generale del mercoledì, dal 2 luglio in poi.
Innanzitutto ha voluto aiutarci ad entrare nell’ambiente culturale e religioso del tempo di Paolo e poi ci ha fatti immergere nelle tappe essenziali della sua vita, in particolare in quel fatto sconvolgente, accaduto sulla via tra Gerusalemme e Damasco e raccontato negli Atti degli Apostoli e poi più volte dallo stesso Paolo nelle sue lettere, quando la vita di colui che si chiamava Saulo è stata radicalmente mutata di segno.
Perché questa preoccupazione di farci entrare nella vita di Paolo? Non sarebbe bastata una lettura del suo insegnamento, una analisi della sua “teologia”? Il Papa sa bene che vita e insegnamento in Paolo sono assolutamente intrecciati. In un certo senso si può dire che la sua vita è il suo insegnamento. Egli non ha nient’altro da darci se non ciò che gli è accaduto. Certo, gli eventi della sua vita, lungo lo scorrere degli anni sono a lui apparsi, per opera dello Spirito in una luce sempre nuova e più profonda.
È in questa stessa luce che Paolo vuole farci entrare. La luce che si è accesa su quella strada. Scrive il Papa: «Questa svolta della sua vita, questa trasformazione di tutto il suo essere, non fu il frutto di un processo psicologico, di una maturazione o evoluzione intellettuale-morale, ma venne dall’esterno: non fu il frutto del suo pensiero, ma dell’incontro con Cristo Gesù. In questo senso non fu semplicemente una conversione, una maturazione del suo io, ma fu morte e risurrezione per lui stesso: morì una sua esistenza e un’altra nuova ne nacque con il Cristo risorto. In nessun’altro modo si può spiegare questo rinnovamento di Paolo. Tutte le analisi psicologiche non possono chiarire e risolvere il problema. Solo l’avvenimento, l’incontro forte con Cristo è la chiave per capire che cosa era successo».
Siamo entrati così non in uno dei tanti momenti della vita di Paolo, ma in quello decisivo. Tutto il resto non sarà nient’altro che uno sviluppo di quel momento, un allargamento di esso fino a portarlo a comprendere il senso di tutta la sua vita, di quelli che lo circondavano e infine di tutto il mondo. Quell’evento «ha allargato il suo cuore, l’ha reso aperto a tutti. In questo momento non ha perso quanto c’era di bene e di vero nella sua vita, nella sua eredità, ma ha capito in modo nuovo la saggezza, la verità, la profondità della legge dei profeti, se n’è riappropriato in modo nuovo. Nello stesso tempo, la sua ragione si è aperta alla saggezza dei pagani; essendosi aperto a Cristo con tutto il cuore, è divenuto capace di un dialogo ampio con tutti, è divenuto capace di farsi tutto a tutti». È il Papa stesso ad interrogarsi: cosa vuol dire questo per noi? «Vuol dire che anche per noi il cristianesimo non è una nuova filosofia o una nuova morale. Cristiani siamo soltanto se incontriamo Cristo».
Nella parola apostolo si racchiude per Paolo il senso di tutta la sua vita: con quel termine vuole dirci che è stato chiamato, voluto per un compito che non ha deciso lui, da una presenza che prima non conosceva, o meglio conosceva soltanto secondo la carne, cioè superficialmente. Adesso invece quella presenza ha un nome, è una persona, Gesù Cristo che lo chiama ad essere suo servo. Tutta la forza, l’energia con cui prima lo perseguitava, prende adesso un nuovo segno, diventa la passione per annunciare il Vangelo. Anche le contraddizioni della vita finiscono per essere capovolte e diventare una benedizione. Per esempio: tutte le sue debolezze interiori ed esteriori, provocate cioè dai suoi limiti, dalle sue paure, dalle sue violenze o subite come battiture, opposizioni, fatiche, … diventano nient’altro che la manifestazione della forza di Gesù. Paolo sperimenta che lo Spirito di Gesù si manifesta in lui proprio attraverso le sue debolezze. E poi le opposizioni di quelli della sua casa, prima gli Ebrei che lo ritengono un rinnegato, poi i cristiani giudaizzanti che lo accusano di aver annacquato la tradizione per ingraziarsi i pagani. Anche questo diventa per Paolo l’occasione per riaffermare continuamente l’universalismo della sua missione apostolica. Non può rinunciarvi perché non è stato scelto da se stesso o da altri uomini, ma dal Figlio di Dio.
Eppure nonostante questo Paolo non è un rivoluzionario. Pur vivendo una forte dialettica con tanti apostoli egli sa di essere inserito in una tradizione che lo precede, sa che c’è Pietro, il primo che va a visitare dopo la “conversione” e da cui tornerà per affrontare i temi più spinosi del suo apostolato. Ma soprattutto sa che c’è una vita lasciata da Gesù in cui lui stesso si deve inserire. Così, quando parla dell’Eucarestia, ripete due volte: «vi trasmetto quanto anch’io ho ricevuto». Lo stesso quando testimonia il cuore del cristianesimo: «vi ho trasmesso anzitutto quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è resuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai dodici».
Entriamo così nel cuore dell’esperienza di Paolo e del suo annuncio. Nelle sue lettere non troviamo un racconto della vita di Gesù. Tutti i Vangeli dell’infanzia sono riassunti in due parole: nato da donna. Non c’è un racconto dei miracoli, per lo meno diretto, né un resoconto della vita della comunità apostolica. A Paolo interessa parlare di Gesù Cristo, quale Signore «vivo adesso e presente adesso in mezzo ai suoi. Di qui la caratteristica essenzialità della cristologia paolina […] Annunciare, certo, il Gesù vivo, il suo insegnamento, ma annunciare soprattutto la realtà centrale della sua morte e resurrezione. […] Per l’Apostolo la resurrezione non è un avvenimento a se stante disgiunto dalla morte: il risorto è sempre colui che, prima, è stato crocifisso».
Dal Cristo crocefisso risorto Paolo risale al Figlio che esiste da sempre col Padre e che per obbedienza al Padre assume la condizione di servo, prende la carne umana, si fa obbediente fino alla morte di croce ed è infine esaltato dal Padre che riaccoglie in Lui tutta la creazione salvata.
«Nell’incontro con Gesù gli si era reso chiaro il significato centrale della Croce: aveva capito che Gesù era morto ed era risorto per tutti e per lui stesso. Ambedue le cose erano importanti: Gesù è morto realmente per tutti ed Egli è morto anche per me. Nella Croce, quindi, si era manifestato l’amore gratuito e misericordioso di Dio». «Per San Paolo la Croce ha un primato fondamentale nella storia dell’umanità; essa rappresenta il punto focale della sua teologia, perché dire Croce vuol dire salvezza come grazia donata ad ogni creatura». Per questo il tema della croce di Cristo diventa un elemento essenziale e primario della predicazione dell’Apostolo. La croce rivela l’amore di Dio per l’uomo, amore gratuito. Tutto per Paolo ruota intorno a questo centro di gravitazione. Come si vede l’esperienza personale di Paolo è continuamente approfondita da lui fino a diventare consapevolezza di ciò che è accaduto ad ogni uomo e quindi di ciò che lui è chiamato ad annunciare. L’immane quantità di chilometri percorsi, le spaventose difficoltà che ha dovuto affrontare sono la testimonianza esteriore di questo fuoco che lo animava. San Giovanni Crisostomo ha scritto che in Paolo si era trapiantato il cuore di Cristo.
Le ultime catechesi dell’anno 2008 sono state dedicate dal Papa ad un altro tema, centrale nell’insegnamento di Paolo: la salvezza attraverso la fede e il rapporto tra questa salvezza e le opere dell’uomo. Da una parte il Papa vuole mostrare la rivoluzione che Paolo opera: l’uomo è giustificato solo dalla fede. «L’alternativa fra la giustizia per le opere della Legge e quella per la fede in Cristo diventa uno dei motivi dominanti che attraversano le sue lettere». Che cos’è la legge? Certamente i cinque libri di Mosè con cui si apre la Scrittura sacra ma poi anche, nell’interpretazione farisaica che Paolo aveva studiato, un complesso di comportamenti e di osservanze che erano stati oggetto anche dei dibattiti fra Gesù e i suoi contemporanei. «Tutte queste osservanze che esprimono un’identità sociale, culturale e religiosa erano divenute singolarmente importanti» perché costituivano come un muro di difesa dell’identità di Israele minacciata dalle culture pagane che assediavano il piccolo mondo giudaico. Quando incontra Cristo, Paolo capisce che questo muro non è più necessario. Non c’è bisogno di tutte quelle osservanze. «È Cristo che ci protegge contro il politeismo e tutte le sue deviazioni […] Il muro non è più necessario, la nostra identità comune nella diversità delle culture è Cristo ed è Lui che ci fa giusti». Con questo la legge nel suo cuore, l’amore di Dio e del prossimo, non è per nulla abolita, anzi trova un più radicale fondamento. Se è vero che solo la fede in Cristo ci rende giusti e non le nostre opere, è altrettanto vero che questa fede non è semplicemente un’opinione o un pensiero. «Questa fede è comunione con Cristo, che il Signore ci dona e perciò diventa vita, diventa conformità con Lui. […] La fede, se è vera, se è reale, diventa amore, diventa carità, si esprime nella carità. Una fede senza carità, senza questo frutto, non sarebbe vera fede. Sarebbe fede morta. […] Disastrose sono le conseguenze di una fede che non si incarna nell’amore, perché si riduce all’arbitrio e al soggettivismo più nocivo per noi e per i fratelli». Seguendo san Paolo scopriamo la bellezza di non appartenere più a noi stessi e di glorificare Dio con tutta la nostra vita, come dice lui di «offrire il nostro corpo come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio».
«Se l’etica che Paolo propone ai credenti non scade in forme di moralismo e si dimostra attuale per noi, è perché, ogni volta, riparte sempre dalla relazione personale e comunitaria con Cristo». È quello che Paolo chiama la vita secondo lo Spirito.