Cristiani d'Iraq.

«Dai loro occhi so che vivono»

L'intervista a monsignor Amel Shamon Nona, arcivescovo caldeo di Mosul, che da quattro anni condivide con la sua comunità il rischio della vita. E la speranza. «Li ho visti cambiare, giorno dopo giorno» (da "Tracce" di luglio/agosto)

Luca Fiore

Il momento più terribile è stato all’inizio. La notte del 6 giugno. Si parla di 4mila famiglie in fuga. Hanno abbandonato tutto scappando verso i villaggi vicini. Alle 11 di sera esercito e polizia hanno abbandonato Mosul, lasciando via libera ai gruppi armati dell’Isil, lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante. Monsignor Amel Shamon Nona, arcivescovo caldeo della città, si trovava a Tal Kayf, tre chilometri a nord, e li ha visti arrivare. A piedi, donne e bambini, famiglie intere a camminare nel buio per cinque o sei ore. Cristiani e musulmani, terrorizzati. Alle loro spalle, le luci dei bombardamenti. Scappavano da qualcosa che non sapevano cosa fosse, cercando rifugio senza sapere se l’avrebbero trovato.
Oggi Mosul, come Tikrit e Kirkuk, è sotto il controllo del fondamentalismo che impone la sharia, la legge islamica. A fine giugno la sede dell’Arcidiocesi caldea, abbandonata da settimane, è stata occupata e saccheggiata dai miliziani, che hanno issato sul tetto dell’edificio la bandiera nera dell’Isil.
Monsignor Nona, a Mosul, ci è arrivato nel 2010. Il suo predecessore, monsignor Paulos Faraj Rahho, era stato rapito e ucciso due anni prima. Nato 47 anni fa ad Alqosh, 45 chilometri a nord di Mosul, Nona è stato ordinato nel 1991 ed era diventato parrocco nella sua città. Racconta il dramma del suo popolo. Parla dell’incertezza del futuro. Ma dei quattro anni passati a Mosul, difficilissimi per la sua comunità, la parola che resta è quella più impensabile: speranza.

Monsignor Nona, ha avuto paura?
Non per la mia persona, ma per la mia gente. Non vorrei mai che accadesse del male a qualcuno. Per questo quella notte mi sono attaccato al telefono per chiedere alle famiglie rimaste a Mosul di andare via. Molti non sapevano, non avevano idea. Le famiglie cristiane escono di casa solo se necessario e molti non avevano capito la gravità di quello che stava accadendo.

Si aspettava che la situazione precipitasse in questo modo?
No. La città è molto pericolosa, lo sappiamo. Ogni giorno c’erano attentati con autobombe. Ma mai avrei pensato che la seconda città del Paese cadesse così facilmente. A Mosul c’erano tantissimi soldati e armi. Non è chiaro perché, tutto d’un tratto, l’esercito si sia ritirato.

La gente ha avuto paura. C’è anche rabbia?
Ora domina la preoccupazione. Per quello che è successo, ma soprattutto per quello che potrebbe accadere. Non è pensabile che la situazione rimanga come è adesso. La gente ha lasciato le case e il lavoro. Per quanto tempo dovranno rimanere rifugiati? Poi c’è il timore che le cose peggiorino ulteriormente. Non sappiamo che cosa ci attende.

Lei è arrivato a Mosul nel 2010. Non ha avuto la tentazione di rifiutare la nomina, visto quanto accaduto a monsignor Rahho?
No, il primo pensiero è stato per il bisogno dei fedeli di questa Diocesi. Erano rimasti due anni senza pastore. La mia preoccupazione era se fosse possibile o meno esercitare il servizio di Vescovo.

Qual è stata la prima impressione?
Sono arrivato il 16 gennaio 2010. Dal 17, per due settimane, sono stati uccisi uno o due cristiani al giorno. Molti fedeli della città sono fuggiti. Poi, nel tempo, alcuni di loro sono ritornati.

Come sono stati questi quattro anni?
Non è stato possibile fare molte delle cose che si fanno in una Diocesi normale. Gli spostamenti non sono facili. Occorre muoversi con molta cautela: cambiare spesso auto e non ripetere gli stessi tragitti. Grazie a Dio tutte le chiese della città sono rimaste attive, tranne tre parrocchie che abbiamo chiuso per mancanza di fedeli o perché si trovavano in zone più pericolose.

Ci sono state limitazioni alle celebrazioni religiose?
Per alcuni anni non è stato possibile, per ragioni di sicurezza, celebrare le funzioni di mezzanotte a Natale e a Pasqua.

Che cosa ha significato per lei e per i suoi fedeli vivere la fede in una situazione così difficile?
Molti cristiani non potevano permettersi di andare via, soprattutto per ragioni economiche e di lavoro. Io ho sempre cercato di dare loro la speranza, di far capire come è possibile vivere anche qui. Ho sempre detto che nonostante il rischio di essere uccisi tra un’ora o tra un minuto, è possibile vivere ogni istante con piena speranza e piena gioia.

Come ha capito che era possibile?
Ho cominciato a vivere io per primo così. E ho iniziato a comunicare questo nelle mie omelie e negli incontri. Col passare del tempo ho notato che la gente cambiava, i fedeli avevano bisogno di questa certezza. Avevano bisogno di imparare a vivere in una situazione in cui si rischia la vita, in cui si è minacciati, in cui si è perseguitati dentro una società che non è accogliente per chi è cristiano. Mosul è una città che non accetta il modo diverso che hanno i cristiani di vivere. Ma dentro tutto questo, ho visto che io per primo ero lieto.

Da cosa si è accorto che i cristiani hanno cambiato atteggiamento?
Dal modo di vivere. Sono loro che hanno iniziato a dirmi di avere bisogno di essere più attaccati alla nostra fede. Erano loro a dirmi che erano tornati a vivere dentro le tante difficoltà. Loro me lo dicevano a parole e io, dai loro occhi, capivo che era vero. Lo capivo dal modo in cui me lo dicevano. Ho visto questo cambiamento giorno per giorno. Quando sono arrivato era un’altra cosa. Erano altre persone. Ma dopo sei mesi, un anno, il cambiamento in loro era palpabile.

Che cosa ha permesso questo?
Una conoscenza più profonda della fede. È questo che ci dà una visione più chiara della vita. Indipendentemente dal fatto che il momento sia facile o difficile. In questi anni il mio sforzo è stato quello di approfondire il contenuto della nostra fede, comunicarlo in modo semplice perché potesse arrivare a tutti, anche a chi non sa nulla di teologia. Un po’ penso di esserci riuscito. Lo dico perché, quando giro per la Diocesi, è la gente a chiedermi di tornare sui contenuti della fede. È la fede che ci dà forza.

Di questi contenuti di fede, qual è quello che le è più caro?
La speranza. Che è il motto del mio episcopato. Non si tratta di attendere qualcosa nell’aldilà, ma sapere che ciò che attendo nell’aldilà si sta realizzando già oggi, in questo momento. Questo permette di vivere ciascun momento per quello che è: irripetibile. E se sappiamo che è irripetibile, possiamo viverlo con pienezza. Pienezza di fede e di gioia, ma anche di rabbia se c’è rabbia. Tutto è diverso nella prospettiva della speranza. Ed è la speranza stessa che mi dà la forza di comunicarla agli altri. Non è una cosa che ci si può tenere per sé: bisogna condividerla.

Che cosa domanda nella preghiera in questi giorni?
Prego il Signore che doni a tutti gli abitanti dell’Iraq la serenità del cuore. Senza questa serenità non si arriverà mai alla pace.