Il cardinale Vinko Puljic, arcivescovo di Sarajevo.

«Aspettiamo il Papa a cuore aperto»

Alla vigilia del viaggio apostolico nei Balcani, parla il cardinale arcivescovo di Sarajevo, Vinko Puljic. Ecco come i cattolici (ma anche i musulmani e gli ortodossi) attendono il Pontefice, a vent'anni dalla fine della guerra
Valentina Cominetti

Sarajevo è entusiasta e in fermento. Nella città si respira un clima di attesa e di festa. Si mettono a punto gli ultimi preparativi e si attendono, domani mattina, ottocento pullman che porteranno da tutta la Bosnia, ma anche dalla Croazia e dalla Serbia, circa 40mila persone.
Per fare il punto della situazione e comprendere meglio l'importanza di questo evento, abbiamo intervistato il cardinale Vinko Puljic, arcivescovo di Sarajevo dal 1990, che è stato accanto alla comunità cattolica della Bosnia Erzegovina nei suoi momenti più difficili. Ma a vent'anni dalla conclusione della guerra, il suo lavoro non è terminato perché lo spettro della discriminazione in questo Paese è presente ancora oggi.

Eminenza, può spiegarci cosa rappresenta il viaggio del Santo Padre per la Bosnia, per le realtà religiose locali, per il mondo politico istituzionale, per la gente?
La visita del Papa è motivo di gioia per tutto il Paese, e non solo per la comunità cattolica. Anche musulmani, ortodossi ed ebrei sono pronti ad accogliere questo messaggio di speranza e di pace. Tutti hanno voluto dare il proprio contributo all'organizzazione di questo grande evento e parteciperanno attivamente. Questo è importante, perché il Papa tiene molto alla valenza ecumenica e interreligiosa del suo viaggio. I tre i presidenti della Repubblica, quello musulmano di Bosnia, quello di etnia serba e quello di etnia croata (attualmente in carica), hanno invitato ufficialmente il Santo Padre e ora lo attendono con entusiasmo. Questo è un segnale importante per un Paese come il nostro, in cui la politica è poco unita e poco stabile. Siamo gente povera, uno Stato povero, ma ci siamo impegnati per preparare tutto al meglio, per esprimere la nostra gratitudine e la nostra felicità. È fondamentale per il futuro della Bosnia che tutti tengano il cuore e le orecchie aperte per comprendere bene il messaggio di pace del Santo Padre, perché a tutti è rivolto. E tutti dobbiamo ascoltarlo, accettarlo e lavorare per implementarlo.

Qual è la situazione dei cristiani, e più in particolare, dei cattolici a vent'anni dalla fine del conflitto? Ci sono ancora discriminazioni?
Le discriminazioni qui non mancano mai e i cattolici, numericamente molto inferiori agli ortodossi e ai musulmani, sono i più penalizzati. Bisogna sottolineare, però, che si tratta di una discriminazione più su base etnica che su base religiosa. A soffrire non sono i cattolici in quanto cattolici, ma in quanto croati. Un esempio semplice: i croati hanno molti più problemi di tutti gli altri a trovare impiego. Se il datore di lavoro è bosniaco o serbo, preferisce, quasi sempre, assumere qualcuno della sua stessa etnia. Così, tanti giovani, e non solo, sono costretti a emigrare. Non è bastato che il nostro numero si sia più che dimezzato negli anni della guerra. Diventiamo sempre di meno e la comunità internazionale non ci aiuta: anziché promuovere l'integrazione delle varie anime dei popoli ne pretende l'assimilazione, pretende che ci si privi delle proprie unicità. La Chiesa, invece, desidera che tutti mantengano la propria identità, ma in un clima di collaborazione e convivenza.

Cosa pensa della diffusione dell'estremismo islamico in Bosnia, di cui si sente parlare soprattutto negli ultimi mesi?
Se finalmente si sente parlare della diffusione dell'integralismo e dell'estremismo islamico in Bosnia, è solo perché la visita del Santo Padre ha fatto sì che questo Paese, quasi sempre ignorato dai media, sia tornato a esistere per la comunità internazionale. Sono vent'anni che mi impegno personalmente per denunciare il processo di islamizzazione e di radicalizzazione nel mio Paese, che è cominciato con la guerra civile, quando i mujhaidin, i combattenti islamici, venivano per aiutare militarmente, ma anche concretamente nella vita quotidiana, i loro fratelli musulmani. Oggi non è facile combattere questo fenomeno perché è troppo radicato. La Chiesa, inoltre, può parlare direttamente solo con le autorità ufficiali del mondo musulmano, non con i leader delle comunità wahabite. Poi il nostro è un Paese povero, con troppi giovani disoccupati e in stato di necessità: questo significa che molti sono disposti a tutto pur di sopravvivere, magari anche ad arruolarsi nelle file degli estremisti.

Ci sono, in controtendenza a tutto questo, esempi di integrazione e di collaborazione tra la Chiesa e la comunità islamica?
Bisogna innanzitutto ricordare che la maggioranza dei musulmani di questo Paese è moderata e aperta al confronto. Con le autorità islamiche dialoghiamo continuamente. Alcuni dei nostri interlocutori sono molto collaborativi, ma non vale per tutti. Attualmente la massima autorità islamica della Bosnia, il gran muftì Husein Kavazovic, sta lanciando forti segnali contro il fondamentalismo, contro coloro che vanno a combattere la jihad. Ha chiesto che a questi venga revocata la cittadinanza e ha affermato esplicitamente che gli jihadisti «non agiscono in nome di Allah». È molto, ma dobbiamo tutti impegnarci di più per trasformare questa coesistenza in convivenza pacifica e fertile. Sono certo che la visita del Papa darà i suoi frutti, anche in questo senso.