A Sarajevo, il convegno della Fondazione Oasis.

Tra i fiori rossi di Sarajevo

Qui cent'anni fa scoppiava la Prima Guerra mondiale. E vent'anni fa 11mila morti ci hanno ricordato quanto sia fragile la pace. Oggi, nella capitale bosniaca, un convegno prova lanciare semi di speranza. Per tutto il mondo
Marco Bardazzi

Nelle strade di Sarajevo è facile trovarsi a passeggiare su fazzoletti di cemento spruzzati di vernice rossa. Macchie che a colpo d'occhio fanno pensare a fiori creati da un artista ispirato dall'espressionismo astratto. «Sono le nostre rose della memoria», racconta Mohammed, un giovane yemenita-bosniaco che ci guida alla scoperta della capitale. «Ricordano i punti della città in cui le granate fecero strage durante l'assedio degli anni Novanta».

Il desiderio di pace si avverte più forte nelle città che hanno conosciuto tante guerre. E a Sarajevo quel desiderio non è solo un anelito: è un grido e una sfida da affrontare ogni giorno. Un fiore fragile, che rischia un giorno di tornare a trasformarsi di nuovo in rose di sangue sui marciapiedi.

«Il dialogo non ha alternative. L'alternativa è la guerra», ripete il cardinale Vinko Puljic, l'arcivescovo che fu l'uomo della speranza negli anni bui della Sarajevo assediata e che ancora oggi guida una diocesi drasticamente ridimensionata: i cattolici erano mezzo milione prima della guerra e sono ora meno di 200mila. «Abbiamo già avuto troppo guerre: nel secolo scorso abbiamo sperimentato tre conflitti terribili e sanguinosi. Ora teniamo molto alla pace».

La testimonianza del Cardinale è stata uno dei momenti chiave dell'undicesimo incontro internazionale del comitato scientifico di “Oasis”, la Fondazione creata dal cardinale Angelo Scola che da anni è diventata uno degli osservatori più importanti sulla trasformazione del mondo islamico e sulla presenza dei cristiani nei paesi arabi e musulmani. La scelta di Sarajevo per l'annuale incontro di Oasis è legata al tema, delicatissimo, su cui si sono confrontati gli esperti arrivati da decine di Paesi: «La tentazione della violenza. Religioni tra guerra e riconciliazione». Un terreno minato da esplorare con cautela, con lo sguardo rivolto al passato per decifrare la complessità del significato del concetto di "jihad". Ma anche al presente, per trovare chiavi di lettura per drammi come quelli che vivono la Siria o l'Iraq.

Il cardinale Puljic ha ricordato con gratitudine l'operato e le parole di Giovanni Paolo II, che definì ripetutamente Sarajevo «città simbolo del XX secolo» e lanciò da qui, nel 1997, un forte appello per la pace ancora di straordinaria attualità. «La pace vincerà se tutti sapranno lavorare nella verità e nella giustizia, andando contemporaneamente incontro alle legittime aspettative dei cittadini di questa terra che nella loro complessa diversità possono diventare un segno per l'intera Europa», disse il Papa, nella capitale che stava cautamente rinascendo dopo gli accordi di Dayton.

Sarajevo, oggi, è un segno per l'Europa? Da molti punti di vista sì, per aver saputo ricostruire una convivenza pacifica dopo i massacri, in una terra divisa tra tre etnie e in una capitale dove si incontrano quattro religioni (cattolici, cristiani ortodossi, musulmani ed ebrei). Vedere tutti insieme in questi giorni in strada, a seguire rumorosamente le partite del primo Mundial a cui partecipa la rinata Bosnia, è un buon segno.

Ma le ferite restano, aggravate dalla crisi economica. «È un periodo difficile, ma dipendiamo gli uni dagli altri e la convivenza è decisiva», ha spiegato nell'incontro di Oasis la più alta autorità locale musulmana, il Reis-ul-ulema Husein ef Kavazovic. «La nostra responsabilità è far sì che, al posto dei fiori che onorano i nostri morti, crescano fiori di perdono e riconciliazione».

Secondo il cardinale Puljic, «quello che è più difficile è guarire le ferite nei cuori e ricostruire rapporti umani positivi». Ci provano a Sarajevo, caso praticamente unico, i docenti della Scuola cattolica europea "S. Josip", che ha ospitato i lavori di Oasis: una vera e propria "oasi" di convivenza cittadina, con ragazzi delle varie etnie che vivono gli anni scolastici insieme e guardano con speranza all'Europa. Quella stessa Europa su cui i loro coetanei nell'Ue sono sempre più scettici, qui è un sogno e un traguardo da raggiungere.

Sarajevo è città simbolo anche per questo: è un monito per tutto il resto del continente. Qui, il 28 giugno di 100 anni fa, il celebre attentato al Ponte Latino scatenò la Prima Guerra mondiale (le commemorazioni del centenario sono già cominciate). E sempre qui, solo vent'anni fa, tre anni d'assedio e 11mila morti hanno ricordato all'Europa quanto sia fragile la pace.

C'è una responsabilità delle religioni in questo? Sono portatrici di violenza in nome di Dio? Gli interventi di Oasis hanno scavato a fondo su questo, con testimonianze anche dalla Nigeria alle prese con Boko Haram, dall'India e dai vari ambiti del Medio Oriente. «Come Oasis, non possiamo accettare come normale il fatto che molte società musulmane siano oggi travagliate dalla violenza», ha scritto il cardinale Scola nel suo intervento, che non ha potuto partecipare per impegni improvvisi. «Benché non siano certamente le uniche a conoscere questo problema, nondimeno il fenomeno ha assunto negli ultimi anni dimensioni estremamente preoccupanti, generando un inarrestabile esodo, di cristiani come di musulmani, che sta privando molti di questi Paesi delle loro migliori risorse».

Il jihad non è un concetto di violenza, quantomeno non lo era nei testi classici dell'islam e nelle prime interpretazioni, ha sostenuto la studiosa Asma Afsaruddin, della Indiana University di Bloomington (Usa). Tesi, le sue, accolte con qualche scetticismo da molti relatori che provengono da Paesi a maggioranza musulmana, convinti che quella della professoressa americana sia una lettura importante, ma che non rispecchia le interpretazioni prevalenti nell'islam.

Durante i lavori di Oasis, che presto saranno raccolti nel prossimo numero della rivista (le anticipazioni sono disponibili su fondazioneoasis.org), c'è stato spazio anche per esplorare e confutare con cura la tesi che vuole il monoteismo in genere come radice in sé della violenza. È stato Javier Prades, rettore dell'Università Ecclesiastica San Dámaso di Madrid, ad andare al cuore di un pregiudizio diffuso che si appoggia sulle idee di Schopenhauer e che vede nel relativismo l'unica opzione credibile per le democrazie liberali. «La violenza in nome di Dio è una deviazione dalla dottrina cristiana», ha spiegato Prades, e tra le religioni monoteiste il cristianesimo, in questo senso, si distingue in modo sorprendente nella storia: «Dio Padre ci libera dalla violenza attraverso la libera consegna del Figlio, che patisce sulla propria persona le violenza umana per vincerla. Uno della Trinità ha liberamente scelto di soffrire, per liberarci dalla violenza».

Un esempio che Prades vede riproposto nelle figure dei martiri, come i monaci cistercensi di Tibhirine, uccisi in Algeria, il cui luogo di martirio è ora mèta di pellegrinaggi da parte di cristiani e musulmani.

Il sangue e l'odio, come ha ricordato Scola, si vincono con «il coraggio del perdono. Occorre saper chiedere perdono e perdonare. Davvero non c'è pace senza giustizia, non c'è giustizia senza perdono».