<em>Il nome di Dio è Misericordia</em>.

Un'altra logica

Dalle pagine sulla confessione a quelle su «come vivere il Giubileo». Tutte intrise della sua esperienza. La conversazione di Francesco con Andrea Tornielli affonda nel rapporto con la grazia, il peccato, il mondo. Un «altro mondo», che sorprende
Davide Perillo

È un libro in cui entri con certe idee, un armamentario di esperienze e di pensieri. E ne esci spiazzato, completamente. Perché ti accorgi che c’è in gioco qualcosa di molto, ma molto più profondo di quello che avevi in mente tu. Addirittura, sembra quasi che si parli di altro. Grazie a Dio.

Il nome di Dio è misericordia (Piemme, 120 pagine, 15 euro), la conversazione di papa Francesco con Andrea Tornielli (vaticanista de La Stampa) in libreria da oggi in 86 Paesi e presentato a Roma dal cardinale Pietro Parolin, da Roberto Benigni e da Zhang Agostino Jianquing, carcerato del Due Palazzi di Padova, è anzitutto un’occasione per approfondire il tema del Giubileo iniziato un mese fa, è chiaro. Ma è anche uno strumento per riprendere un fil rouge potente di tutto il Pontificato, già dalle primissime omelie del marzo 2013. E da prima che quella frase buttata lì da un teologo in un convegno (per riavvicinare la gente alla Chiesa ci vorrebbe «un Giubileo del perdono») e rimasta piantata nel cuore di Bergoglio prendesse forma, appunto, nella decisione di indire un Anno Santo straordinario.

Per il Papa l’epoca che viviamo è davvero «il tempo della misericordia». Un’epoca in cui per tutti è decisivo «aprire il cuore al misero» (etimologicamente «misericordia» significa questo, ricorda) ma alla Chiesa, in particolare, è chiesto di mostrare «il suo volto materno, il suo volto di mamma, all'umanità ferita».

E sono ferite profonde, piaghe che l'uomo «non sa curare, o, peggio, crede non sia proprio possibile curare». Alla deriva del relativismo (che «ferisce tanto le persone: tutto sembra uguale, tutto sembra lo stesso») e al dramma della nostra epoca già indicato da Pio XII («l’aver smarrito il senso del peccato»), se ne aggiunge un altro: considerare il nostro male come incurabile, come qualcosa che non può essere guarito. E questo perché, osserva il Papa, «manca l'esperienza concreta della misericordia». Manca, spesso, qualcuno disposto a «donare il proprio tempo per ascoltare i drammi», ad esercitare quell’«apostolato dell’orecchio» che, dice Francesco, è fondamentale perché l’uomo possa riscoprire la verità più potente e decisiva su di sé: è amato. Prima di qualsiasi altra cosa, è voluto e amato da un Dio disposto a perdonarlo, sempre. Con una modalità che trabocca veramente al di là di qualsiasi misura umana: perché la misericordia «non è solo il perdono di Dio, ma è il modo in cui perdona, la sua tenerezza».

Basta poco, perché questa grazia entri nella vita. Quasi nulla. Ma è un “quasi” che fa una grande differenza. Basta riconoscersi peccatori, bisognosi, limitati. Avere coscienza del nostro peccato, e domandare. «La misericordia c’è, ma se tu non la vuoi ricevere… Se non ti riconosci peccatore vuol dire che non la vuoi ricevere».

Coscienza che può essere debole, fragilissima. Come tutto, di noi, è fragile. Può essere anche solo un passo. Tornielli, in una domanda, ricorda che don Giussani citava Bruce Marshall e il soldato di A ogni uomo un soldo. In punto di morte, davanti al confessore che gli chiedeva se fosse pentito, rispondeva con sincerità assoluta: «Come faccio a pentirmi? Era una cosa che mi piaceva, lo rifarei ora. Come faccio a pentirmi?». E il confessore, che voleva salvarlo: «Ma ti rincresce che non ti rincresca?». «Sì». «Cioè, mi spiace di non essere pentito: la fessura che aveva permesso l’assoluzione…», osserva Tornielli. E il Papa: «È vero, è così. È un esempio che rappresenta bene i tentativi che Dio mette in atto per far breccia nel cuore dell’uomo. Ci attende, aspetta che gli concediamo soltanto quel minimo spiraglio per poter agire in noi». Uno spiraglio. Un filo di ragione che riconosce e di libertà che si spalanca.

Ecco, il Papa parte da lì. Da questo spiraglio che non è una questione di sentimento, ma dice di una coscienza del proprio io (Francesco lo ripete spesso, parlando di sé, anche in queste pagine: «Sono un uomo perdonato dai suoi molti peccati»). E partendo da lì, inizia a mostrare che le ferite sono curabili, che la medicina c’è, sempre.

A cominciare dalla confessione. Che - ricorda - è un fatto oggettivo, e per questo necessario («è vero che io posso parlare con il Signore, chiedere perdono a lui, implorarlo. Il Signore perdona, subito. Ma è importante che io vada al confessionale, che metta me stesso di fronte a un sacerdote che impersona Gesù. C'è un'oggettività in questo»). E che ha pure un risvolto sociale, perché anche «l'umanità, i miei fratelli e sorelle, vengono feriti dal peccato».

Ci sono tante pagine sulla confessione, che offrono riferimenti continui all’esperienza personale del Papa (da quel padre Carlos Duarte Ibarra che lo accolse in confessionale nel giorno in cui iniziò a rendersi conto della vocazione, il 21 settembre 1953, a padre José Ramon Aristi, di cui Francesco stesso, ora, porta al collo una piccola croce).

Ma in tutto il volume proprio questo parlare di continuo degli incontri fatti apre anche uno spaccato su un’umanità diversa, abbastanza lontana dalla “normalità” che tante volte abbiamo in mente noi europei occidentali e benestanti: la madre costretta a prostituirsi per dare da mangiare ai figli, la ragazza che fa la stessa vita fino all’incontro con «un segno» della misericordia divina (l’uomo che si innamora di lei e la sposa), il povero, i carcerati… Per noi, al massimo, sono casi limite; nelle periferie da cui viene il Papa (e a cui chiede di guardare) sono vite e popolo, un universo tutto da scoprire perché abbiamo tanto da guadagnarci. Da sorprenderci.

Proprio come è successo allo stesso Bergoglio, in un episodio già raccontato nei primissimi momenti da Papa: l’incontro con l’abuela, la nonnina, che anni fa, mentre gli chiedeva di confessarla, lo folgorò così: «Se il Signore non perdonasse tutto, il mondo non esisterebbe».«Un esempio della fede dei semplici, che hanno la scienza infusa», dice il Papa. E non lo fa “per modo di dire”: la semplicità di cuore è davvero la porta di una conoscenza che i libri, di per sé, non spalancano. Leggi, e capisci il suo amore per la fede popolare, dichiarato tante volte: non c’è niente di sentimentale, anzi.

Inevitabile affrontare anche un tema emerso più volte negli ultimi tempi (si pensi al Sinodo sulla famiglia, ma non solo). Tornielli lo pone così: non c’è troppa insistenza sulla misericordia, nella Chiesa di Francesco? E la condanna del peccato? Il Papa risponde seguendo un filo: il Figliol prodigo. Non solo per ricordare che l’amore del padre che attende il ritorno precede qualsiasi altra cosa, ma anche per osservare un aspetto decisivo per capire il suo modo di pensare: alla fine è l’altro figlio, quello che si lamenta perché lui ha sempre seguito le regole, a «dire la verità». Ha le sue ragioni, ottime, davanti al padre. «Dice la verità, ma allo stesso tempo si auto-esclude».

Stessa dinamica che emerge in un altro brano del Vangelo ripreso a fondo: la guarigione del lebbroso, da Marco (1, 40-45). Guarendolo, osserva il Papa, Gesù lo ha reintegrato nella comunità, ovvero in quella società da cui era stato escluso non senza ragioni, perché si trattava anche di tutelare i sani. Solo che Lui segue «un’altra logica»: per Cristo, «quello che conta davvero è raggiungere i lontani e salvarli, come il Buon Pastore, che lascia il gregge per andare a recuperare la pecora smarrita. Allora, come oggi, questa logica e questo atteggiamento possono scandalizzare, provocano il mugugno di chi è abituato sempre, e soltanto, a far entrare tutto nei propri schemi mentali anziché lasciarsi sorprendere dalla realtà, da un amore e da una misura più grandi». Sono proprio due visioni del mondo, «due logiche di pensiero e di fede», sottolinea il Papa. «Gesù entra in contatto con il lebbroso, lo tocca. E così ci insegna come fare». Come avvicinare l’altro, come “uscire”. Ma anche come vincere la resistenza degli schemi, l’attaccamento alla lettera della Legge, perché all’origine di certi irrigidimenti non c’è anzitutto una questione teologica: «C’è il venir meno dello stupore di fronte alla salvezza che c’è stata donata».

È un’altra parola-chiave, lo stupore. Anche qui, è una questione di riconoscimento, di uno sguardo che coglie la realtà per come essa è. Di coscienza e anche - forse soprattutto - di memoria della propria condizione («è importante anche conservare la memoria, ricordarci da dove veniamo, che cosa siamo, il nostro niente»).

Il Papa insiste di continuo su questo. Lo si vede pure quando Tornielli gli fa una domanda secca, che tanti hanno in cuore: «Ci può essere opposizione tra verità e misericordia, tra dottrina e misericordia?». La risposta è fulminante: «La misericordia è vera, è il primo attributo di Dio». Poi, aggiunge, si possono fare tutte le riflessioni che si vuole, «ma senza dimenticare che la misericordia è dottrina». Mesi interi di dibattiti teologici, polemiche e presunti aut aut dottrinali ricomposti così, in poche frasi che tornano all’origine.

Ci sono altri temi, nel libro. Francesco torna sulla differenza di fondo tra peccato e corruzione, che invece è ingiustificabile (ed anche qui, è una anzitutto questione di riconoscimento: «La corruzione è il peccato che invece di essere riconosciuto come tale e di renderci umili, viene elevato a sistema, diventa un abito mentale»). Parla della famiglia, «prima scuola di misericordia». Della compassione. Della misericordia degli uomini. Della sua preferenza per i carcerati, perché «penso sempre che potrei essere al posto loro».

Fino all’ultimo capitolo, su «come vivere il Giubileo»: tre pagine appena, compreso il percorso sulle opere di misericordia. Ma andrebbero imparate a memoria. Perché sono un tesoro a cui attingere di continuo, in questo anno. E nella vita.


Papa Francesco
Il nome di Dio è Misericordia. Una conversazione con Andrea Tornielli

Piemme
pp. 120 - 15 euro