Papa Francesco.

Sotto luce nuova

Papa Francesco ha concluso il lavoro iniziato da Benedetto XVI: «Un gesto di testimonianza e di fraternità tra due uomini», che ci accompagnano attraverso un cammino dello sguardo» (da "Tracce", luglio/agosto)
Costantino Esposito

Lumen fidei, la prima enciclica di papa Francesco, può essere considerata al tempo stesso come l’ultima di Benedetto XVI, il quale ne aveva «già quasi completato una prima stesura», assunta poi come propria dal nuovo Papa, che vi ha aggiunto «alcuni ulteriori contributi» (come lui stesso afferma al n. 7). Questo fatto ci dice qualcosa di essenziale riguardo ad un testo che non è solo un documento del Magistero, ma è anche un gesto di testimonianza e di fraternità di due uomini che verificano nella propria esperienza la novità di giudizio e di affezione portata dalla fede nella vita. E per questo diventano una grande compagnia per tutti. La fede, per loro, costituisce la grande possibilità di «illuminare» nuovamente la questione dell’umano, per tanti versi oggi confusa e smarrita, come il fondo nascosto di tutte le nostre “crisi”, quelle personali come quelle socio-economiche, culturali e politiche. Si tratta perciò di porre nuovamente la domanda su cosa permetta veramente di vivere all’altezza - infinita - del proprio cuore e della propria intelligenza. Può la fede illuminare davvero la vita? Oppure - secondo una tendenza tipica della modernità - essa resta confinata nel regno dell’oscurità?

Nella cultura contemporanea la fede cristiana sembra presa dentro una morsa che rischia di soffocarla. Da una parte essa è vista come una bella «illusione», la proiezione dei nostri desideri insoddisfatti o l’enfasi di un sentimento soggettivo, che magari sarà anche consolatorio o edificante, ma alla fine non regge di fronte alle critiche della ragione. Perché è un «sentimento cieco», nutrito delle nostre emozioni, ma senza presa su ciò che è reale. Di fronte all’esigenza di conoscere più a fondo la realtà e se stessi, come di fronte all’urgenza di progettare e di cambiare il mondo - tipiche dell’uomo moderno che impugna con fierezza la propria autonomia di giudizio - cosa può dire ancora di interessante la fede? Dal momento in cui essa è stata ridotta ad uno spazio in cui la ragione non può entrare, la fede «ha finito per essere associata al buio» (n. 3).

Dall’altra parte - quasi come il rovescio della medaglia - la fede è considerata, sì, come un valore positivo, ereditato dalla tradizione cristiana, ma è sempre più ridotta ad un «fatto scontato» (n. 6), usata magari come spunto per conseguenze di ordine morale e politico. Solo che i presupposti scontati finiscono spesso per risultare superflui, e l’ovvietà ben presto si tramuta in crisi. Quella crisi della fede indicata da Benedetto XVI come l’emergenza più acuta per la Chiesa e per tutta la società del nostro tempo, e rispetto alla quale egli aveva indetto, appunto, un Anno della Fede. Le motivazioni ideali e i principi culturali grazie ai quali si era sviluppata un’intera civiltà - dall’idea di libertà all’identità inviolabile del singolo uomo, dal concetto di bene comune a quello di solidarietà eccetera - si sono quasi consunti, come grandi valori che tramontano nel buio dell’insignificanza. Da un lato come dall’altro, dunque, la fede sembra alludere ancora una volta all’oscurità e alla cecità della ragione.

Per questo ci sorprende la sfida di papa Francesco a «riscoprire» la natura vera della fede, nelle sue ragioni verificabili. E piuttosto che attraverso una definizione teorica, egli lo fa attraverso la descrizione di come la fede possa diventare esperienza della vita: «La fede ci apre il cammino e accompagna i nostri passi nella storia. È per questo che, se vogliamo capire che cosa è la fede, dobbiamo raccontare il suo percorso, la via degli uomini credenti» (n. 8). La caratteristica primaria della fede come esperienza è la scoperta di una luce che permette di vedere: «Chi crede, vede; vede con una luce che illumina tutto il percorso della strada, perché viene a noi da Cristo risorto» (n. 1). E questo percorso è fondamentalmente un «cammino dello sguardo» (n. 30), la cui logica è appunto quella della scoperta, non della ripetizione.

La fede percepita come luce - lumen fidei - permette alla ragione umana una (sempre) nuova conoscenza della verità, che non è mai riducibile a qualcosa di già saputo (le nostre misure e le nostre costruzioni), bensì accade come il venirci incontro di una «presenza» che chiama ciascuno di noi ad essere, in ogni istante. La presenza di tutto ciò che è presente - la nostra persona e quella degli altri, la natura come la storia, le cose e gli eventi - non è un caso anonimo, ma un amore personale. Nella grande storia che va da Abramo sino a Gesù di Nazaret, ciò in cui si crede - come una realtà affidabile su cui la vita trova sostegno e fondamento - è l’amore fedele di Dio, che ci raggiunge attraverso la realtà, fino a quella realtà ultima che è la morte: anch’essa, anzi proprio essa, illuminata come il varco di una speranza che non delude e di una felicità che comincia a compiersi già nel limite e nella contraddizione del vivere.

Ancora una volta l’Enciclica sottolinea che la nostra cultura «ha perso la percezione di questa presenza concreta di Dio, della sua azione nel mondo», pensando in definitiva che «Dio si trovi solo al di là, in un altro livello di realtà, separato dai nostri rapporti concreti»; mentre la fede ci fa percepire «l’amore concreto e potente di Dio, che opera veramente nella storia e ne determina il destino finale, amore che si è fatto incontrabile, che si è rivelato in pienezza nella Passione, Morte e Risurrezione di Cristo» (n. 17).

Il passaggio dal primo al secondo modo di conoscere implica una vera e propria «trasformazione del cuore», cioè dell’intelletto e dell’affetto dell’uomo: «La fede non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere» (n. 18). E quello che Lui vede è la presenza del Padre, cioè il primato del dono di Dio, che sempre ci precede. Per questo potremmo dire che la vera alternativa alla fede non è tanto la miscredenza o l’ateismo, ma è l’idolatria, che consiste «nell’adorazione dell’opera delle proprie mani», e per questo «è sempre politeismo»: non un vero cammino, ma il «movimento senza meta da un signore all’altro» (n. 13).

Seguendo il tesoro di testimonianza e di pensiero dei Padri - soprattutto del sempre presente Agostino - Francesco e Benedetto sottolineano che questa «visione» della fede fa propria la grande esigenza di conoscere compiutamente le cose, espressa dalla filosofia greca, senza però ridurla al mero esercizio di un intelletto astratto, ma incarnandola nell’esperienza concreta - corpo e anima - delle persone viventi nella storia, come è proprio del popolo di Israele. Qui la conoscenza prima ancora che un «vedere» è un «ascoltare», cioè è un rapporto - nel tempo - tra Uno che parla e l’uomo chiamato a rispondergli. Il vedere è tutt’uno con l’esser raggiunti da questa Parola, che con Cristo diventerà il Verbo di Dio fatto carne. Di qui un terzo significato della fede, come un «toccare» sensibilmente la presenza di Dio che si rende compagno all’uomo, e che continua attraverso la realtà materialmente percepibile della Chiesa e dei suoi Sacramenti. In questa sua triplice dimensione - vedere, ascoltare, toccare (n. 30) - la fede rende presente in definitiva che «l’amore ha bisogno della verità» per essere reale e durare nel tempo, ma che «anche la verità ha bisogno dell’amore» (n. 27), per conquistare la nostra intera persona.

Ma da ultimo, tra i tanti spunti che meritano una lettura attenta e verificata di questa ricchissima Enciclica, non possiamo tacere dell’insistenza sul fatto che la fede, pur essendo un’esperienza personale del cristiano, non è mai un atto o un gesto individualistico. Proprio nella misura in cui «ci rende contemporanei di Gesù» (n. 38), essa «è destinata a pronunciarsi e a diventare annuncio» per gli altri uomini (n. 22), un vero e proprio «bene comune» (n. 34). Non si può mai credere da soli, come non ci si può battezzare da se stessi (n. 41), perché la fede è un dono che riceviamo - così come riceviamo l’esistenza -, e ci rende uniti in una stessa vocazione, facendo di noi un corpo solo. Ma questo vale, come testimonianza profetica, per tutti quanti gli uomini. La «verità dell’amore», conosciuta per la fede «non è verità che s’imponga con la violenza, non è verità che schiaccia il singolo». E così si fa chiaro che «la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti» (n. 34).

Contrariamente a quello che ormai i più pensano, la fede non va pagata al prezzo della ragione e della libertà, ma costituisce la condizione - o meglio la strada - che permette agli uomini di essere davvero razionali e finalmente liberi.