Centrafrica, missione preghiera

In un Paese completamente allo sbando, con migliaia di morti e sfollati, le clarisse di Bouar semplicemente restano. Uno dei pochi segni di speranza per una popolazione senza più riferimenti
Anna Pozzi

Sinora era stata miracolosamente risparmiata. Ma la crisi che devasta e disorienta da diversi mesi la Repubblica Centrafricana ha bussato anche alle porte di Bouar. Dove, lo scorso settembre, è stata attaccata e saccheggiata la missione cattolica di Notre Dame di Fatima. Illesi i due missionari presenti della Congregazione Sacro Cuore di Gesù di Bétharram (betharramiti): padre Beniamino Gusmeroli, missionario italiano valtellinese, e fratel Martial Mengue, diacono centrafricano, che è stato preso in ostaggio per qualche ora dai ribelli per coprirsi la fuga. «È l'ennesimo atto di prepotenza e di saccheggio da parte dei ribelli di Seleka - dicono i religiosi -; ribelli ormai incontrollati e incontrollabili da parte delle autorità. Segno di un degrado della situazione che non vede spiragli di cambiamento se non vi sarà un intervento rapido e deciso da parte della comunità internazionale». Sono invece state risparmiate le monache clarisse del convento di Bouar, che nonostante il caos e la violenza che regnano nel Paese e che hanno colpito anche la missione, hanno deciso di restare. «Una presenza non solo di preghiera - precisa suor Chiara, rientrata per un periodo in Italia -, ma soprattutto un segno di speranza. Nonostante tutto». La popolazione vuole bene alle clarisse; se se ne andassero pure loro, dice la gente, significa che tutto è perduto, non c'è più speranza. Le monache hanno un'antica tradizione in questa cittadina, situata a nord-ovest del Centrafrica, una tradizione legata a una lunga presenza francese cominciata nel 1961 e, dal 1989, grazie a una comunità mista di italiane, centrafricane e una congolese, nove monache in tutto. «Le mie consorelle sono sempre rimaste lì - racconta suor Chiara - anche nei momenti più difficili. Si sono allontanate solo per quattro giorni, subito dopo il colpo di Stato del 24 marzo, chiedendo ospitalità ai frati che si trovano a cinque chilometri. Altrimenti sono sempre state presenti».

E questo vuol dire molto. Perché un monastero di clausura "respira" e vive delle amicizie e delle relazioni con la gente del posto, dell'accoglienza e della solidarietà reciproca. La gente, a sua volta, "respira" il silenzio, la preghiera, la pace di questo luogo dove Dio è al centro di tutto, ma che non dimentica i fratelli specialmente nelle difficoltà. «O te ne vai o cerchi di andare avanti - dice molto semplicemente suor Chiara -. E se scegli di restare, provi a farlo nella più assoluta "normalità". Il vescovo ci ha chiesto di continuare la nostra missione di preghiera e presenza. Dopo la paura, è quello che stiamo cercando di fare. Con uno sguardo aperto e fiducioso verso il futuro. La gente non ne può più. Non si fida di nessuno. Noi dobbiamo coltivare la fiducia, anche se siamo ben consapevoli dei rischi che si corrono. Eppure, proprio in questo periodo, tre giovani hanno chiesto di venire a conoscere la nostra vita. Questo è un segno di speranza anche per noi».

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