Papa Giovanni Paolo II.

Un amore che risponde al grido del povero

La "Evangelii gaudium" e gli interventi di Francesco riaprono il dibattito sulla dottrina sociale nella Chiesa. In un'opera di Karol Wojtyla, "Fratello del nostro Dio", alcuni spunti sul tema. Un «lasciarsi plasmare dalla carità», che guarda ai più deboli
Lorenzo Albacete

Anni fa, quando insegnavo teologia, ebbi l’opportunità di chiedere a papa Giovanni Paolo II cosa pensasse del dibattito sulla dottrina sociale nella Chiesa. Il dibattito continua ancora oggi, con le opinioni di papa Francesco, così ho pensato che fosse interessante riprendere quello che a suo tempo mi disse Giovanni Paolo II.
Era stato veramente sintetico: «Dica ai suoi studenti che se vogliono capire il mio punto di vista devono studiare le opere teatrali che ho scritto. Sul tema della giustizia sociale, l’opera è Fratello del nostro Dio» [Karol Wojtyla, Fratello del nostro Dio e Raggi di paternità, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1982. ndt]. Da allora, tutte le volte che ci vedevamo, lui mi chiedeva se ai miei studenti piacevano le sue opere teatrali.

Questo dramma fu terminato nel 1979, quando l’Autore era già Papa, e rappresenta una fonte importante per studiare il suo pensiero sulla dottrina sociale. Eppure nessuno pare considerarlo come una fonte seria di testimonianza teologica. Il Papa beatificò e canonizzò la persona a cui è ispirata la figura del protagonista di quest’opera, e ora il Papa stesso è in procinto di essere canonizzato. Un santo moderno che racconta l’esperienza di un altro santo, ed è ignorato come fonte di conoscenza teologica? Di cosa si tratta allora? Di un pio racconto sulla spiritualità moderna?

Comunque sia, Fratello del nostro Dio è incentrato sulla figura del polacco Adam Chmielowski (1845-1916), rivoluzionario, combattente e artista. Durante un temporale cerca rifugio in un edificio apparentemente vuoto, ma si ritrova invece in mezzo a una moltitudine di senzatetto, cinici e arrabbiati - un incontro che cambierà completamente la sua vita.
L’opera è una riflessione sulla battaglia nel cuore di Adam, che cerca il modo giusto per rispondere ai bisogni dei poveri, a livello individuale, ma anche a livello della distribuzione e dell’uso del potere in una società autenticamente umana. Alcuni personaggi sono personificazioni romanzate delle differenti risposte al problema della povertà; altri invece sono figure storiche realmente esistite. Erano tutti artisti, così la discussione inizia dal tema della responsabilità sociale dell’arte. Per i nostri intenti, il passo più interessante è quello della discussione tra Adam e tre altri personaggi (Ricordiamo che in realtà la discussione si svolge nell’animo di Adamo).

Prima c’è Max, propugnatore di una posizione individualista e soggettivista. Costui divide la razza umana in due tipi di persone: un uomo “intercambiabile” e uno “non intercambiabile”. Il primo è la persona impegnata in rapporti sociali; il secondo è «il mio proprio io, intimo, noto solo a se stesso». Adam rifiuta questa visione di un uomo non intercambiabile come l’io reale, ma non può nemmeno approvare la visione dell’esistenza nella sicura routine di una vita sociale come rivelatrice del proprio io. Una simile visione dell’uomo privo di interiorità, obietta il protagonista, è «una fuga sulle isolette del lusso» dove ci sentiamo al sicuro in un sistema sociale che protegge l’individuo, mentre questa sicurezza è in realtà un’illusione che ci benda gli occhi e ci impedisce di vedere la difficile condizione dei poveri e di sentire la loro richiesta di giustizia.

Poi c’è il personaggio chiamato Lo Sconosciuto, un rivoluzionario convinto che solo l’ira dei poveri potrà spezzare il cerchio della povertà in nome della giustizia che viene loro negata. Adam non respinge la giusta ira del povero, ma afferma che Lo Sconosciuto sfrutta questa ira. Tutti noi, afferma ancora Chmielowski, dovremmo essere condotti a riconoscere un bisogno dentro di noi che è più profondo e più vasto della nostra povertà materiale, e che si chiama povertà di valori. Questi valori mostrano i beni che la nostra anima sta cercando, e che non si possono raggiungere scegliendo la strada dell’ira, ma solo con quella dell’amore.

C’è infine un personaggio, chiamato L’Altro, che rappresenta il razionalismo - una conoscenza puramente intellettuale del mondo così com’è, senza condividerne i pesi.

Dopo quella discussione, Adam vede un mendicante estenuato, appoggiato a un lampione che ne proietta l’ombra in una strada buia e fredda... Questa volta Adam percepisce tale incontro come una vocazione. E vede che il povero ha in sé un’immagine a cui siamo chiamati ad arrenderci: l’immagine di Dio nei poveri e nei sofferenti, l’immagine di Cristo che è presente anche in noi, legati a Lui.
Ma L’Altro non riesce a vedere il vagabondo (l’intellettualismo non è attratto dalla persona concreta), indicando così che Adam si è sottratto alla «tirannia della ragione». Pur vedendo cosa comporti il sacrificio d’amore per rispondere al povero, sa che unicamente in questa risposta egli «non è solo» perché «si lascia plasmare dalla carità».
Nell’epilogo, Lo Sconosciuto obietterà che i poveri non lo seguiranno, ma Adam risponde: «No. Sarò io a seguirli».

Pensate che papa Francesco predichi un Vangelo diverso dal pensiero di Karol Wojtyla?