Papa Francesco a Santa Marta.

Il peccato di Davide

Attraverso l'episodio del re e Betsabea, il pontefice ci richiama ai nostri peccati non riconosciuti. E alle vittime di questa superbia. Il vero problema non è la tentazione, né cadere. Ma «non chiamare per nome» le proprie miserie
Alessandra Stoppa

Il più grande peccato di oggi è non chiamare il peccato per nome. Sostituirlo con «un problema da risolvere». Le omelie a Santa Marta sono ormai parte fondamentale del magistero di papa Francesco. Se pur così brevi e a braccio, contengono sempre i cardini del suo annuncio e del suo modo di annunciare. Come l’omelia di venerdì scorso: pochi minuti, in cui ha rimesso a fuoco la vera conoscenza del peccato e di se stessi. Ha guardato alla vicenda di re Davide per dirci quanto sia inconfessata la nostra superbia. E nel farlo ha dato un giudizio culturale molto duro sul contesto di oggi, con parole difficili da “attutire”, per la radicalità che portano.

Il secondo Libro di Samuele racconta che Davide s’invaghisce di Betsabea, moglie di uno dei suoi fedeli soldati, Urìa l’Hittita. La vede dalla terrazza, la vuole per sé e la ottiene. Ma Betsabea resta incinta e Davide manda Urìa in battaglia, dando l’ordine che combatta in prima fila. Dove troverà la morte. Davide non è scosso dal tradimento, né dall’assassinio: «Si trova davanti ad un grosso peccato», dice il Papa: «Ma lui non lo sente, il peccato. Non gli viene in mente di chiedere perdono». Vuole solo trovare un modo per superare il problema. E il modo più veloce è eliminare il problema stesso.

«Tutti siamo tentati e la tentazione è il pane nostro di ogni giorno», dice il Papa: «Se qualcuno di noi dicesse: "Io mai ho avuto tentazioni", o è un cherubino o è un po' scemo, no? È normale nella vita la lotta, il diavolo non sta tranquillo, lui vuole la sua vittoria». Ma il fatto più grave che il brano ci mette davanti non è la tentazione, né il cadere: «È come agisce Davide. Lui non pensa al peccato, ma ad un problema che deve risolvere». È una conoscenza distorta di cosa viviamo o abbiamo davanti. Non è un problema moralistico, ma una mancanza nello sguardo e nel giudizio. Innanzitutto, nella coscienza di se stessi. E lo dice un uomo che alla domanda: «Chi è Jorge Mario Bergoglio?», ha risposto: «Sono un peccatore». Non come lo diciamo noi: siamo tutti peccatori... Lo aveva spiegato sempre in una messa mattutina (del 25 ottobre): «Noi lo diciamo come cercando sempre una giustificazione. Non come san Paolo, che vive una lotta dentro di sé, e si confessa peccatore davanti alla comunità». Per questo, la vergogna che proviamo confessandoci “faccia a faccia” con il prete «è una grazia: perché il peccato è concreto, mentre noi tendiamo a nascondere la realtà delle nostre miserie». Non le riconosciamo.

Così, le sue parole sul re Davide sono anche un giudizio potente sulla mentalità del nostro tempo, che rifiuta di chiamare le cose con il proprio nome, arrivando ad affermare che tutto è uguale a tutto: dall’aborto a ideologie come quella del genere che sostituiscono la cultura alla natura. «Questo è un segno!», dice il Papa: «Quando il Regno di Dio viene meno, quando il Regno di Dio diminuisce, un segno è che si perde il senso del peccato. Ogni giorno nel Padre Nostro chiediamo che venga il Tuo regno. Ma uno dei segni che il Regno non cresce è questa perdita del senso del peccato, che lascia spazio ad una visione antropologica superpotente». Non sentire il peccato è affermare: «Io posso tutto». E Davide è schiavo non del suo sbaglio, ma del peccato non riconosciuto. Perché non conoscere se stessi e i propri limiti non permette di sperimentare la pienezza che viene da Dio. La salvezza non verrà da noi stessi, nemmeno dalla nostra «intelligenza e astuzia», ma «dalla grazia di Dio e dall’allenamento quotidiano che noi facciamo di questa grazia». Colpisce anche la conclusione: «Io vi confesso che, quando vedo queste ingiustizie, questa superbia umana, anche quando vedo il pericolo che a me stesso avvenga questo, il pericolo di perdere il senso del peccato, mi fa bene pensare ai tanti Urìa della storia, ai tanti Urìa che anche oggi soffrono la nostra mediocrità cristiana. Sono i martiri dei nostri peccati non riconosciuti». Sono coloro che muoiono perché «pagano il conto del banchetto dei sicuri». Dei «cristiani sicuri».