La voce di braccia che ti accolgono

Il mondo come creazione, il progresso tecnologico e il suo rapporto con l'ambiente. Papa Francesco richiama la necessità di un «conversione ecologica» dell'uomo di oggi. Che però, spiega il filosofo Mazzarella, non vuol dire solo cura della natura...
Eugenio Mazzarella

Noi siamo parte della carne del mondo. E quella carne è creata. Ed è tutta degna, nel vangelo della creazione. Anche il suo lato “materiale”. Ubriacati dalla superiorità dello spirito, la “nostra” superiorità nell’universo - oggi la spiritualizzazione della tecnica e la sua potenza operativa tralignamento della “materia creata” nel materialismo dello spirito - troppo spesso «dimentichiamo che noi stessi siamo terra (Gen. 2,7)», e che lo sguardo di Gesù «era distante dalle filosofie che disprezzavano il corpo, la materia e le realtà di questo mondo». Questo è il nucleo teologico dell’Enciclica di Francesco: la scena del mondo creato che è due volte carne di Dio, come sua creazione e come creazione che ha voluto visitare nell’uomo incarnandosi nel seno della Vergine Maria.

Il suo cuore teologico-politico è l’ecologia umana come “cura della casa comune”. Cura che non è solo ecologia della natura, ma ecologia “umana” - della “natura” dell’uomo che ci è data, spirito e corpo, nella sua “biologia” e nella sua “storia”; oggi fonte di straordinarie preoccupazioni per la guida mercatoria e tecnocratica dei progressi della scienza e della tecnica e dei processi di globalizzazione, denunciata come insostenibile: «l’inequità planetaria, ambiente umano e ambiente naturale che si degradano insieme». A un passo dall’essere oggi l’iniquità pura e semplice, il suo mysterium storico, contro cui ogni uomo di buona volontà è chiamato a misurarsi. Ben più di una crisi di valori e di modello di sviluppo, che pure è, una situazione che rischia un punto di rottura antropologico, e che si porterebbe via la “casa” dell’uomo che abbiamo conosciuto, che non è solo la terra che fin qui ha abitato, ma lui stesso, la natura che il suo spirito inabita, e che lo abita, cui Cristo ha inteso annunciare “per sempre” la sua salvezza.

Se l’uomo si è visto “buono” negli occhi di Dio, e nella tradizione ebraico-cristiana è Dio che lo ha visto tale, suo compito è difendere la sua “bontà”: quello che è stato ed è, e che deve essere. Richiamando la Pacem in terris di Giovanni XXIII, Laudato si’ ne completa e chiarisce l’ispirazione teologico-politica, e la profezia. Pacem in terris è fare pace non solo sulla terra, ma con la terra; e fare pace con la terra è innanzi tutto fare pace con la terrenità dell’uomo, con la natura e con la storia in cui è stato posto dalla creazione; è fare pace con l’uomo, con l’immagine che Dio ci ha dato di noi, l’evidenza di noi che ha dato a noi stessi, e tra gli uomini.

Un’ecologia della natura che non sia solo soluzioni tecniche a problemi causati da un uso distorto della tecnica - un circolo che rischia di essere infinito portando all’usura l’ambiente che si prende in carico - ha reali possibilità di successo solo se sostenuta da una generale «conversione ecologica» dell’uomo contemporaneo. Un uomo invitato a posare su di sé lo sguardo che vi posò Cristo. Perché «soltanto con delle dottrine, senza una mistica che ci animi, senza “qualche movente interiore che dà impulso, motiva, incoraggia e dà senso all’azione personale e comunitaria” (Evangelii gaudium), non sarà possibile impegnarsi in cose grandi… in un dinamismo di cambiamento duraturo (che) è anche una conversione comunitaria».

La «grande ricchezza della spiritualità cristiana», dalla cui fede nell’enciclica si illumina la profezia di questa “conversione”, non ha alcun fine apologetico, ma vuol solo porsi al servizio, come “sale del mondo” di questa chiamata, decisiva per il suo futuro, che ha davanti a sé l’uomo contemporaneo. Che deve sentirsi “amministratore responsabile” della sua casa comune e non suo “signore”. Una signoria che oggi veste i panni di un’economia e di una finanza che piega ai suoi fini una tecnica, che in alcuni suoi tratti ormai è un fiume che trascina con sé chi ha aperto le dighe. E a pagare l’usura che ne viene alla “casa comune” - ambiente, socialità, futuro - sono i più “poveri”, e in definitiva i molti, i troppi, i quasi tutti che non siedono nei consessi di potere del mondo, nella prima cerchia che il potere accudisce, e che accudisce al potere non come servizio ai fratelli, all’universale fraternità umana, ma come autotutela dei suoi privilegi.

Questo mi sembra l’Enciclica di Francesco. E pure è qualcosa in più tutto questo, detto nel testo con una semplicità che mi rendo conto di aver complicato. Una parresia, una semplicità esemplare di posizioni e di parole: un grande discorso sul creato e il potere, nell’ispirazione di Francesco, del “poverello” di Assisi, che sfida la “città degli uomini”, la “politica” - le sue disugaglianze, le sue cecità umane, le sue angosce per il potere sugli uomini e le cose - a farsi “città di Dio”, dove l’uomo possa vivere il suo bisogno di relazione, con Dio, con gli uomini, con le cose.

Un discorso sulla povertà necessaria dell’uomo, che come povertà dello spirito se non bisogno di Dio è almeno bisogno degli altri; e come povertà materiale è bisogno di condivisione di un pane - i beni del mondo: natura, ambiente, società, politica, industria, economia, tecnica; le cose le relazioni le azioni in cui ci sosteniamo - che è comune: sia l’aria, il cibo, l’acqua. Siamo ai fondamentali dell’umanità necessaria. Nessuna enciclica potrebbe essere più universale, più cattolica di questa, perché, nella cura della casa comune, “uniti da una stessa preoccupazione”, niente di questo mondo le risulta indifferente; niente dei bisogni dell’uomo le è alieno, materiali e spirituali.

Per questo, al di là del richiamo pastorale, rivolto all’economia e alla finanza, all’eticità ineludibile delle loro finalità sociali, anche la fermezza dottrinale sulla centralità della famiglia, sul rifiuto della teoria del gender e delle pretese di una scienza-tecnica irriflessiva che non dialoghi più con filosofia, storia, etica e pensi di dettare dai laboratori un nuovo discorso sull’uomo, non ha mai il tono dell’anatema che esclude, ma dell’invito a ragionare insieme sulle risposte che stiamo cercando ai nostri bisogni.

In questo c’è nell’enciclica un tratto specifico e generale del pontificato di Francesco: l’accoglienza viene prima dell’insegnamento. Una grande intuizione umana e pedagogica: la voce che sei più disposto ad ascoltare è quella della braccia che ti accolgono; è da quella voce che sei più disposto a farti dire come si cammina nel mondo in cui quelle braccia ti fanno fare i primi passi. Per Francesco, la Chiesa sarà maestra di umanità per l’uomo contemporaneo solo se saprà essere maestra di maternità.

Chiusa l’enciclica, alla fine hai una strana sensazione di lettura. Di un’enciclica semplice, piana, persino scontata. Non c’è niente che manchi e tutto sembra ovvio. A cercarla ti sembra di non trovare nessuna novità teologico-pastorale. Alla fine capisci che il testo ti mette davanti l’ovvietà della verità. E chiunque sia intellettualmente onesto non può che dire: ha ragione. Per contraddirlo devi costruire forzosamente un’ideologia specifica. Un’enciclica che offre a chi la legga con occhi puri la banalità del bene. Che per amore del proprio popolo non può essere taciuto.

E un’enciclica che pone alla politica italiana ed europea, soprattutto alla sinistra, un bel problema. Se non sia stato un errore, in Europa, in quella grande piattaforma di diritti (naturali, umani, oggi di cittadinanza) che è stata la sua storia, essere stati così timidi nel riconoscere le sue radici cristiane.