Il genio del cristianesimo, vivo

Francesco ha parlato al Convegno Ecclesiale nel capoluogo toscano. Un discorso storico, che in tanti ha provocato un contraccolpo. Perché ha rimesso al centro Cristo. E una proposta alla nostra libertà
Davide Perillo

Bisognerà leggerlo, riprenderlo, studiarlo a fondo. E bisognerà lavorarci su tanto anche solo per iniziare a rendersi conto della ricchezza che offre alla Chiesa. Ma il contraccolpo è tale che già adesso, a botta calda, può essere d’aiuto fissare qualche punto dello storico discorso che papa Francesco ha fatto al Convegno della Cei di Firenze. Senza la minima pretesa di definire nulla, ci mancherebbe. Ma solo per mettere a fuoco meglio cosa è successo a molti di noi, ascoltandolo. Per accorgerci di più del perché da subito lo abbiamo avvertito come uno choc benefico, una scossa che sorprende e insieme rende lieti.

Anzitutto, la partenza. Commossa (bastava guardare in faccia il Papa) e commovente. Lo sguardo fisso sulla’Ecce homo della cupola di Santa Maria del Fiore. «Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i tratti del volto autentico dell’uomo. È la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche di quella frammentata per le fatiche della vita, o segnata dal peccato. Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Cristo. È il misericordiae vultus. Lasciamoci guardare da Lui. Gesù è il nostro umanesimo. Facciamoci inquietare sempre dalla sua domanda: “Voi, chi dite che io sia?”».

Il centro è Cristo. E, con Lui, il metodo di Dio. Totalmente misterioso, imprevedibile, perché se guardiamo a Cristo vediamo «il volto di un Dio “svuotato”, di un Dio che ha assunto la condizione di servo, umiliato e obbediente fino alla morte». Una strada impensabile per noi. Eppure «non vedremo nulla della sua pienezza se non accettiamo che Dio si è svuotato».

Sorprendente. Di più: sconvolgente, se non lo diamo per scontato. Un Dio che si fa servo. E una concezione dell’uomo e della vita che nascono da lì, da quel capovolgimento delle categorie che abbiamo in mente noi.

Ecco, basta prendere sul serio queste prime frasi – non darle come premesse ovvie - per accorgersi che nelle parole del Papa c’è molto più dell’invito alla Chiesa a «staccarsi dall’ossessione del potere» sottolineato dalle primissime letture fatte - anche a ragione - dai giornali.

In quei tratti di un umanesimo disegnato «non in astratto», ma fissando «i sentimenti di Cristo», in quella triplice sottolineatura di «umiltà», «disinteresse» e «beatitudine» (ovvero della gioia del Vangelo sperimentata «quando siamo poveri di spirito»), c’è il cuore del contributo che la Chiesa può offrire alla società italiana.

È un contributo apparentemente non politico - anzi, a prima vista addirittura lontano anni luce dalla politica -, ma decisivo per chiunque abbia a che fare con il bene comune. Ed è un contributo che coincide, semplicemente, con l’andare a fondo della propria natura, con l’essere quello che la Chiesa è chiamata ad essere, e non altro. Una Chiesa che «non assume i sentimenti di Gesù», che si preoccupa di «essere il centro», semplicemente «si disorienta, perde il senso, diventa triste». Finisce «chiusa in un groviglio di ossessioni».

Anche per questo impressiona la lucidità con cui il Papa coglie le due tentazioni («due, non quindici come quelle che ho richiamato alla Curia», ha sorriso…) da cui guardarsi, accostate a due eresie già vissute nella storia, ma sempre in agguato nei nostri cuori.

Anzitutto, il pelagianismo. Il pensare che la soluzione dei problemi stia «nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni», in una dottrina concepita come «un sistema chiuso», incapace di inquietare. In un “già saputo”, insomma. Mentre la fede «ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo». Solo partire da lì può rendere la Chiesa «libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa».
Poi, lo gnosticismo. Il «confidare nel ragionamento logico e chiaro», che però «perde la tenerezza della carne del fratello» e rimane chiuso in «un soggettivismo dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare». E che, alla fine, è sterile. Perché la differenza della fede sta altrove: «Sta nel mistero dell’incarnazione».

Per questo alla domanda che abbiamo tutti in cuore, più o meno esplicita («cosa dobbiamo fare? Che cosa ci sta chiedendo il Papa?»), e al desiderio più o meno confessato di imboccare scorciatoie, Francesco può rispondere spiazzandoci tutti e sfidando la nostra libertà: «Spetta a voi decidere: popolo e pastori insieme. Io oggi semplicemente vi invito ad alzare il capo e a contemplare ancora una volta l’Ecce Homo che abbiamo sulle nostre teste».

Lo sguardo torna lì. A Lui. «Guardiamo ancora una volta ai tratti del volto di Gesù e ai suoi gesti. Vediamo Gesù che mangia e beve con i peccatori; contempliamolo mentre conversa con la samaritana; spiamolo mentre incontra di notte Nicodemo; gustiamo con affetto la scena di Lui che si fa ungere i piedi da una prostituta…». Guardare a Cristo. «Puntate all’essenziale, al kerygma. Non c’è nulla di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio».

Essenziale, perché solo avere lo sguardo fisso su di Lui permette di entrare nella realtà fino in fondo, fino al dettaglio. Fino alla richiesta «dell’inclusione sociale dei poveri» per riconoscere il valore di quella «medaglia spezzata» che la Chiesa custodisce da sempre, ma in cui c’è da scoprire una ricchezza infinita (quanto c’è da immedesimarsi nel suo sguardo, per scoprirla). Fino alle indicazioni praticissime su cosa voglia dire dialogare («non è negoziare») e incontrare l’altro («ricordatevi che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà»). Fino all’appello accorato ai giovani («vi chiedo di essere costruttori dell’Italia, di mettervi al lavoro per una Italia migliore. Per favore, non guardate dal balcone la vita, ma impegnatevi»).

E fino a quell’indicazione precisa, netta, che fa leva allo stesso tempo su un patrimonio che già abbiamo (e di cui riprendere coscienza) e su strade nuove da scoprire insieme: «In ogni comunità, in ogni parrocchia e istituzione, in ogni Diocesi e circoscrizione, in ogni regione, cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii gaudium, per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni. Sono sicuro della vostra capacità di mettervi in movimento creativo per concretizzare questo studio», perché «siete una Chiesa adulta, antichissima nella fede, solida nelle radici e ampia nei frutti. Perciò siate creativi. Credete al genio del cristianesimo italiano, che non è patrimonio né di singoli né di una élite, ma della comunità, del popolo di questo straordinario Paese». Il genio del cristianesimo, vivo. E un umanesimo nuovo. Il Papa ci crede. E noi?