Padre Caccaro in Cambogia.

Il quinto figlio, il "quinto evangelio"

Padre Alberto Caccaro, missionario del Pime, è tornato nel sud-est asiatico dove aveva già vissuto dieci anni. Qui racconta la storia di Sokhim, povera madre cambogiana che non vuole abortire. E cosa c'entra questa donna con il genio di Van Gogh...

«La mamma era una grande arca / io galleggiavo nel soffio / quando il tempo mio / scalciava / per cominciare» (Le giovani parole, Mariangela Gualtieri).

Ogni qual volta visito le nostre scuole materne rimango sorpreso e affascinato dalla grazia dei bambini. Mi corrono incontro come fossi il loro papà e mi fanno una festa che non merito. Ho paura di ferirli, di mentire loro sul significato della vita. Ho paura della Menzogna. Loro mi corrono incontro come se fossero tante domande, in attesa di una risposta. Mi chiedono implicitamente del senso della vita, dell’amore, del tempo, dell’essere amici, del camminare insieme, del mistero del dolore e della morte. Non posso rispondere facendo appello ai valori; troppo comodo, troppo astratto. Sono ancora bambini, piccoli e per questo vicini alla terra. Ho quindi raccomandato alle insegnanti di rispondere a queste domande piano piano: con la loro presenza e puntualità a scuola, con la pulizia delle aule e con le lezioni ben preparate, con il materiale necessario a stimolare la loro fantasia e creatività e con un canto nuovo da cantare tra le mura di casa. In realtà ho anche aggiunto che solo Dio può rispondere a quelle domande. Che solo Dio è degno della loro libertà. Nessun altro. Meritano Dio, niente di meno. Sento l’urgenza dell’annuncio cristiano, sento che nessuno di questi piccoli deve andare perduto.

Una delle nostre maestre ha toccato con mano la verità di queste parole e mi raccontava che uno dei suoi piccoli alunni, solitamente tra i più vivaci, qualche giorno fa, sembrava piuttosto distratto e lontano da quanto veniva proposto in classe. Nel tentativo di capire che cosa gli stesse succedendo, la maestra cominciava a intuire che qualcosa doveva essere accaduto tra le mura di casa. Infatti, la sera prima, i genitori avevano litigato violentemente, per l’ennesima volta. L’indomani, il bambino sembrava smarrito, assente. E la maestra sentiva tutta la responsabilità di integrare il suo lavoro in classe tentando di ricucire il rapporto tra quei due genitori. Di lì a poco sarebbe andata a casa loro per incontrarli. Ecco ciò che si dovrebbe fare: impegnarsi a ricucire, a ricominciare, a rimettere insieme i pezzi con quella delicatezza sulle ferite propria delle madri con i loro figli. Quell’abilità di cucire e ricucire i panni logori, gli amori stanchi, tipica delle mamme e di certe maestre. In fondo tutte le scuole, anche quelle di grado superiore, dovrebbero rimanere sempre un po’ "materne"…

Non avrei voluto scrivere questa lettera, ma sento l’obbligo di raccontare la storia di una mamma cristiana che lavora la terra attorno ad una delle nostre scuole. Si chiama Sokhim, ha quarantun’anni e cinque figli di cui il più piccolo, Makarà, ha un anno e mezzo, ed è diventato per me come un quinto evangelio. Il marito spesso ubriaco e i debiti, che crescono di mese in mese a un tasso d’interesse del 10%, hanno costretto Sokhim ad allontanarsi per tentare di far quadrare il bilancio familiare, lasciando i quattro figli a casa. Era l’unico modo perché anche il marito potesse lavorare e smettesse di bere. Avevano acquistato un pulmino di terza, forse quarta mano, e trasportavano passeggeri da una città all’altra. Il marito alla guida e lei a gestire i clienti, il sali e scendi di persone e di merci, fino al giorno del parto. Alla notizia dell’arrivo del quinto figlio, tutti, parenti e vicini di casa, avevano cominciato a suggerirgli l’aborto. Quel lavoro era alquanto faticoso. Per l’acquisto del pulmino si erano indebitati. I quattro figli a casa costituivano una responsabilità non da poco. Un quinto in arrivo avrebbe solo complicato la faccenda, ma mai Sokhim avrebbe accettato la prospettiva dell’aborto. Mentre mi raccontava la sua storia sentivo la potenza della Grazia.

Credo fermamente e «so per certo, [che] non vi è quiete più giusta / di un ventre materno, / dentro infatti, vi cresce il paradiso in carne ed ossa» (La terra più del paradiso, Roberta Dapunt). Rileggo questi semplici versi di una poetessa italiana, purtroppo poco nota, e capisco la vita di una donna e mamma cambogiana, ancor meno nota! «Questo scrivo – continua la poetessa – per le mie figlie che a lungo mi abitarono dentro. / Come un tabernacolo le ho conservate, / talmente sacra è per me la loro vita, / che non esse sono mie, / ma io appartengo a loro (…)». Anche nei giorni del parto, in ospedale, Sokhim veniva avvicinata da altre persone che ne conoscevano la situazione, pronte a pagare per avere il suo bambino. Cinquecento dollari fu la loro prima offerta. Pur di averlo. Poi, notando la resistenza di Sokhim, passarono a settecento dollari, accompagnando l’offerta con discorsi di scoraggiamento: «Hai già quattro figli e un marito sempre ubriaco», «hai molti debiti e questi soldi ti farebbero comodo», ma mai Sokhim avrebbe lasciato andare il suo bambino per denaro. Dopo la nascita, il piccolo Makarà ha cominciato ad avere problemi di salute. Il lavoro teneva la mamma lontana da casa e per mesi lo allattava solo una volta al giorno. Era impegnata a correre con quel pulmino, a tenere a bada i debiti, ma anche suo marito che, senza scrupoli, si sarebbe bevuto tutto quello che insieme faticosamente guadagnavano. L’insistente visita a casa dei creditori in attesa di essere ripagati, le umiliazioni e le offese per essere sempre in difetto con il mondo intero, l’irresponsabilità del marito ubriaco, minacciavano seriamente la salute psichica di Sokhim. Eppure, sempre avanti! Con un quinto figlio, un quinto evangelio. Se non scrivessi simili storie, se non raccontassi di Sokhim mi sentirei connivente se non addirittura un funzionario di un sistema che compra e vende, affitta e commercia la vita. E invece scrivo, come «uno stenografo della Natura», come dice lo psicanalista Massimo Recalcati in un suo libro su Van Gogh. Scrivo quello che la Natura mi dice attraverso la vita di questa mamma.

La Natura non compra e non vende, non fa commercio dei suoi figli. Non piega la vita al denaro. La Natura dice "la natura delle cose". La natura di una mamma che, semplice e povera, parla la "lingua madre", e grida la sua appartenenza alla terra, la sua verità di mamma anche quando altre soluzioni sembrerebbero più convenienti. Che c’entra allora Sokhim con le poetesse, mie compagne di viaggio? Che c’entra questa mamma, che vive in un villaggio sperduto e povero della Cambogia, con il grande Van Gogh nelle cui opere «c’è sempre qualcosa di quanto mi ha detto quel bosco o quella spiaggia o quella figura», come dice ancora Recalcati? Ebbene, c’è un sentire che li accomuna, c’è una nobiltà d’animo che li contraddistingue, c’è una speranza che non ha a che fare con i mercati di questo mondo, ma con il loro essere «stenografi della Natura» perché ci dicono la natura delle cose. Quello che la Natura farebbe. In Sokhim ritrovo lo stesso sforzo creativo, lo stesso studio sulla potenza del colore che spinse Van Gogh a dipingere la luce, il colore stesso della luce. E se per Sokhim questo sforzo ha significato «dare alla luce» il suo quinto figlio, per Van Gogh ha significato la ricerca di quell’«alta nota gialla» che gli avrebbe consentito di dipingere niente meno che la luce del sole. Perché «smarrire il legame con la Natura» avrebbe significato per Van Gogh «sprofondare nella menzogna».

In occasione di una delle mie visite a scuola le maestre avevano preparato i bambini con alcune domande. Il primo avrebbe dovuto chiedermi da quale paese provenivo, ma in realtà, sbagliandosi, mi ha chiesto dov'è la mia casa. È stata una domanda sorprendente e molto più difficile di quella prevista. Ho risposto in fretta e ho detto: «Qui». «Qui con Sokhim», aggiungo adesso. Fino a che ci sono mamme così, che nulla hanno da invidiare ai poeti o ai pittori come Van Gogh, allora ci sarà sempre il colore della luce. Ogni giorno ciascuno ricominci dal suo «qui».

Padre Alberto Caccaro, Kompong Cham