Il ministro dell'Istruzione, Stefania Giannini.

Il ministro: «Ora serve ossigeno»

Paritarie, statali e libertà di scelta. E poi merito, autonomia... Alla vigilia dell’incontro con il Papa, Stefania Giannini, guida del Miur, spiega cosa e come vorrebbe cambiare. Con qualche carta da giocare. E un limite (da "Tracce", maggio 2014)
Paolo Perego

La scuola da Francesco, il 10 maggio in Piazza San Pietro. Una chiamata, quella del Pontefice, a cui risponderà anche lei, con la sua presenza tra decine di migliaia di studenti e famiglie: Stefania Giannini, 53 anni, senatrice lucchese, segretario di Scelta Civica, glottologa ed ex rettore dell’università di Perugia, dalla fine di febbraio al timone del Miur. «Tre per uno: istruzione, università e ricerca», dice di quello che è un’istituzione chiave del nostro Paese. Che l’istruzione pubblica non sia solo quella statale lo ha detto lei stessa, fin dall’inizio del mandato, tra le prime dichiarazioni, sbloccando da subito, come Miur, quasi mezzo milione di euro per le paritarie e “riconoscendo” il risparmio di quasi sei miliardi di euro che portano allo Stato: «Il nostro Paese ha un solo sistema scolastico: quello pubblico». E proprio alla scuola pubblica, statale o paritaria, è rivolto l’invito del Papa: «In Italia c’è un legittimo ed efficace affidamento del sistema formativo allo Stato, da un lato, e ad altri enti, altri soggetti, dall’altro», spiega la Giannini. Da quelli che vantano una lunga tradizione, come tante scuole cattoliche a realtà con storie più recenti. «La grande maggioranza fornisce un servizio di qualità», prosegue il Ministro: «È un dato di fatto. L’istruzione pubblica, ovvero a servizio del bene comune, sia per etimologia sia per sostanza politica, non può che avere questi due binari. Distinguiamo la gestione dello Stato da quella sussidiaria, ma riconosciamone i meriti e valorizziamole allo stesso modo».

Cosa lo impedisce?
Tanti orpelli ideologici, intanto. Ricorda il caso di Bologna e del sostegno alle scuole paritarie? Allora ero già in Senato, e mi stupii che personaggi di una certa caratura intellettuale giocassero sul bisticcio semantico di “pubblico contro privato”. L’altra faccia della medaglia riguarda la libertà di scelta educativa sancita anche dalla Costituzione. E su questo, già due anni fa, il Consiglio d’Europa si è pronunciato dichiarando l’Italia inadempiente.

Cosa significa?
Che io genitore o io studente devo avere la possibilità reale di orientarmi verso quello che ritengo il modello educativo migliore per qualità e di maggior sintonia con la mia visione del mondo. E questo può avvenire se le condizioni sono paritarie, anche dal punto di vista dei costi. Si tratta di equilibrare un sistema in cui opportunità di accesso, qualità formativa e differenziazione culturale rientrino negli standard europei.

Ma per garantire la scelta delle famiglie occorre anche che ci sia un’effettiva autonomia per le scuole. Se no come emergono le eccellenze?
È un tema fondamentale per qualunque istituzione educativa. Nella mia visione liberale, devi alzare il più possibile la qualità media dell’istruzione. E lo puoi fare solo se l’autonomia non rimane, come ora, sulla carta. È necessario invece che si possano, con adeguati strumenti, riconoscere e indicare quei modelli migliori, e valorizzarli anche sul piano economico.

In che modo? Ha già qualche idea?
Ci stiamo lavorando, ma occorre trovare la strada giusta.

Il tema dell’individuazione dei famosi costi standard? Stimare quanto costa tra paritarie e statali un singolo studente e lasciare questi soldi per l’educazione in tasca alle famiglie non aiuterebbe a trovare questo equilibrio?
Ci sono persone e associazioni che su questo stanno facendo un grande e utile lavoro. Permetterebbe alle famiglie di scegliere dove spendere i soldi per educare i figli, come in altri Paesi europei, per esempio. Potrebbe essere una strada, ma i fattori in campo sono molti.

Per esempio?
L’autonomia, che non vuol dire che chiunque fa ciò che vuole. La legge che indica la strada già c’è. E su questo non ho incertezze. Se un insegnante si impegna, dà più ore rispetto allo standard della didattica o si assume responsabilità che oggi non sono previste se non su singoli progetti o informalmente, perché non dovrebbe avere un riconoscimento economico strutturato? Può nascerne un circolo virtuoso, purché si mantenga un equilibrio tra spirito cooperativo e competitivo.

Cioè?
La scuola italiana, negli anni, ha totalmente escluso il merito dal novero delle virtù di un insegnante, puntando solo sulla anzianità di servizio. Il risultato è che anche lo spirito cooperativo a far bene viene meno. Perché se tu appiattisci verso il basso, l’insegnante magari il primo anno è motivatissimo, ma poi si disillude. Vero è anche che tanti non smettono mai di metterci anima e corpo. Ma ci possiamo affidare alla buona volontà e basta? Ne ho viste di persone così. Pochi giorni fa, ero ad Assisi e c’era una preside con una scuola troppo piccola per il numero di iscritti. E lei te ne parlava con una ricchezza di umanità che ho pensato: «Per lei non è solo un problema di gestione, di ore, di organizzazione. Questa donna è la scuola». Ma perché non sostenere questi tentativi nobili, mettendo a sistema benefici e meccanismi virtuosi? Il primo guadagno è per la scuola stessa e per la società.

Lei dice che gli strumenti ci sono...
Non credo serva una riforma strutturale. L’Italia non ha uno svantaggio rispetto all’estero e ad altri sistemi. Magari si può pensare a qualche modifica, ma il sistema è adeguato, per un Paese avanzato di 60 milioni di abitanti.

Ma allora cosa serve?
Una volontà politica che sia condivisa dalle parti. Non basta convocare i sindacati, i dirigenti e dire, per esempio, che da domani la valutazione su base Invalsi sarà lo strumento diagnostico per la situazione in corso, ergo per l’assegnazione di risorse... Messo così solleverebbe solo scudi e proteste. Anche se tanti si aspettano qualcosa di questo genere. Si deve usare quello che già c’è, ma tutti devono fare dei passi per trovare un accordo condivisibile. Le leggi sull’autonomia già ci sono. E anche gli strumenti per la valutazione, con alcuni aggiustamenti, potrebbero essere ripresi, corretti e rimessi in campo...

Autonomia e “tutti sotto esame”, dunque, in parallelo.
O il concetto di autonomia si lega a quello di responsabilità se no è solo una possibile anticamera dell’autarchia, per non dire anarchia, in cui ogni fortino si gestisce il suo territorio.

E questo non è un aprire al “mercato dell’istruzione”?
Mercato no. Un confronto competitivo, al massimo. Che premia chi vale, attraverso una valutazione comparativa, di scuole. Poi, attenzione: la valutazione viene fatta da un Ministero, in un sistema come il nostro, ma poi sono studenti e famiglie a farne uso più diretto operando sulla base di questa una scelta. Quindi, valutazione e valorizzazione dell’insegnante, anche attraverso benefici economici, che diano ulteriore sostanza alle parole “ridiamo dignità al mestiere”. Ancora, valutazione delle singole scuole. E valutazione dei dirigenti, che hanno la stessa responsabilità di un allenatore con la sua squadra: se allena bene e la porta in serie A, ne beneficia lui e tutta la scuola.

E la famiglia poi sceglie.
Sulla base anche di una reputazione che deriva dai risultati. La reputazione non è una cosa di cui aver timore. Se frutto di un processo di valutazione e di assegnazione di risorse sulla base dei risultati ottenuti, allora è qualcosa che può contribuire a orientare una scelta.

Ma le risorse? Dove pensa di recuperarle?
La scuola è parte della vita quotidiana di più di un terzo del Paese. E questo Governo ha annunciato di volerla mettere al centro dell’agenda. Renzi è partito dalle strutture. Ben vengano i 3 miliardi stanziati dopo l’insediamento. Ma anche ciò che sta nelle aule va sostenuto. Mi aspetto dal Governo, e non lesinerò nel chiederlo, un’assegnazione di risorse, recuperabili dal dimagrimento di altri comparti, che sia coerente con questi obiettivi politici nuovi, per portare ossigeno dove serve. La scuola ne ha bisogno.

Sarebbe la prima inversione di tendenza rispetto agli ultimi anni, parlando di investimento sull’istruzione.
Sì, ed è fondamentale per mettere in campo gli strumenti che servono. La valorizzazione del mestiere dell’insegnante, anche da un punto di vista remunerativo, è uno di questi. Oppure, tra gli esempi, servono risorse anche per rimettere mano al rapporto tra scuola e lavoro. I nostri licei hanno buoni livelli di preparazione, che competono con il resto d’Europa. Il problema è che sotto si è creato il vuoto. Bisogna ridare spazio, dignità e risorse ai tecnici professionali, valorizzando le iniziative virtuose dei centri di formazione che già operano, e mettendo una pezza alla delega regionale in tema di formazione professionale che, salvo pochi casi, ha avuto nel tempo risultati disastrosi. Così si può ridare respiro, nel lungo periodo, anche all’economia. Per questo è centrale per il Governo, l’istruzione. Ma la scuola deve tornare a essere centrale anche nella vita dei ragazzi, è lì che diventano grandi. E dobbiamo prenderci cura seriamente dell’educazione e del nostro compito educativo.

Che idea ha lei di educazione?
Educare è accompagnare uno a stare in piedi sulle sue gambe. Forse per la mia formazione umanistica, penso che un processo educativo e formativo non si può ridurre al rapporto tra educatore e allievo, ma deve avere come cardini anche dottrina e metodo. Che siano il sanscrito o le staminali, lo studio è un balance equilibrato tra archiviazione ed elaborazione dei dati. Dal maestro unico allo specialista universitario, si deve insegnare ad archiviare i dati e dare strumenti per analizzarli. E questo perché cresca l’autonomia intellettuale e decisionale.

Una sfida non solo per la scuola...
La scuola a volte questo non lo fa, o lo fa poco. È una questione complessa, e detta così forse è una banalità. E spesso non lo fanno i genitori. Io stessa lo vedo nell’esperienza dei miei figli a scuola. Con padri o madri che si ergono a numi tutelari dei figli, su tutto, compiti compresi. Quando dovranno rispondere loro? Come faranno? Tra i valori più importanti che vorrei trasmettere ai miei figli, uno è una sensibilità autonoma, uno spirito critico che consenta loro di scegliere nella vita. Scelte professionali, o affettive. Perché poi, la vita, è una continua provocazione a scegliere.