I prof al <em>concorsone</em>.

E se vincessi il Concorsone?

Terza puntata nel viaggio dei test di preselezione per insegnanti. Daniele, professore liceale, racconta degli incontri fatti nella mattina della sua prova. E la gratitudine verso chi gli ha trasmesso l'entusiasmo per il suo mestiere
Daniele Ferrari

E se vincessi? No, dico, se vincessi che ci farei? Beh, innanzi tutto la casa. La casa è al primo posto! Un bel lavoro vicino a casa: niente più sveglie all'alba, avanti e indietro dal paesino dell'interland a Milano, magari per due volte al giorno.
Se vincessi, certo. Ma quante probabilità ci sono di vincere? I numeri dicono circa 300.000 aspiranti per 11.000 posti. Le probabilità, dunque, sono quasi quelle del Superenalotto. Certo, i miei undici anni di esperienza alle spalle nella scuola qualche vantaggio potrebbero darmelo. Potrebbero, ma basta dare un'occhiata alle domande di questa prima selezione, per spegnere ogni facile entusiasmo: cinquanta quesiti in cui (è indubitabile) chi ne sa di matematica o di lingua straniera ha più probabilità di passare. Il mio collega di matematica quando ha visto alcuni esercizi mi ha detto: «Ma questi sono giochini che ci hanno spiegato all'università... Sono fatti per fregarti!». E anche le domande di lingua inglese non sono da meno: o molto facili, o da specialisti. Altro che merito.
Così in questi ultimi giorni prima del test ho dovuto fare del mio meglio, e, tra un paio di pacchi di temi da correggere, una gita a Roma con le seconde e un saggio sul Cantico delle creature, ho anche dovuto trovare il tempo per allenare le mie sinapsi alla logica matematica. E devo dire che se non fosse stato per i consigli di un collega, qualche trucchetto scoperto su internet e gli schemi di logica dell'amico filosofo, molte domande, per me, sarebbero rimaste “arabo”.

Stamattina, quando sono arrivato alla scuola in cui avrei dovuto affrontare la prima prova, quello che mi ha distratto dall’agitazione pre-test, è stato l’impatto con le umanità di quelli che, come me, attendevano come a un patibolo.
Pochi per la verità erano disposti al dialogo: tutti a ripassare o a guardare nel vuoto nell'attesa che qualche “funzionario” desse l’avvio alle danze. Le uniche che sembravano ben disposte alla conversazione erano le solite del «questa io la so fare, tu no? Ma è facilissima...» o del «questo esame è una vergogna, un'ingiustizia, ma ti pare che io...». Ma con queste, nessuno me ne voglia, non ho mai parlato, neanche all’università.
Prima di entrare ho conosciuto un ragazzo che avrà avuto una quarantina d’anni. Lui non ha mai insegnato, ma con la crisi che c’è, il posto fisso fa gola anche a lui, e poi «forse insegnare potrebbe piacermi». Quando gli spiego che io insegno da quando mi sono laureato grazie a una scuola paritaria, lui mi dice: «Ma, scusa, nelle scuole private non si guadagna di più? con tutti i soldi che vi dà lo Stato!». Nei pochi minuti che mancavano all’appello ho provato a spiegare, ma lui non sembrava davvero molto interessato.

Dopo la registrazione, mi siedo alla mia postazione. Accanto a me si accomoda una donna che, nell’attesa, mi parla dei suoi due figli e della fatica che ha fatto per prepararsi al concorso. Lei un lavoro statale ce l’ha già, ma non nella scuola. Così quando uno dei suoi figli, quattro anni e mezzo, le ha chiesto: «Mamma cosa fai?», lei ha detto: «Mi preparo per un concorso». «E cosa si vince?». «Un posto di lavoro». «E si guadagna di più?». «No». Il bambino, profeticamente, ha concluso: «Ma allora è una fregatura!». A quel punto io le ho chiesto: «Già, ma allora perché lo fai?». La risposta mi ha gelato: «Guarda, a me non interessa insegnare. È che durante l'estate faccio fatica a prendere le ferie, e con due bambini...».
Poi è iniziata la prova. Silenzio assoluto per poco più di 50 minuti. Conclusa la prova l’insegnante responsabile dell’aula è passato con una chiavetta usb che, infilata in nel pc, ha svelato, uno dopo l’altro, i risultati dei test. Alla fine, c’era chi gioiva con un sorriso trattenuto e chi sospirava. Gioia e dolore, ma con compostezza. Tranne per una promossa (dal tono, sicuramente una precaria storica), la quale, con voce sonante, ha consigliato a una bocciata di fare ricorso, «perché Profumo ha sbagliato le percentuali della sufficienza, c’è scritto su internet, e poi tutti fanno ricorso e lo si vince». I docenti prestati all’assistenza sorridevano a chi ce l’aveva fatta e cercavano di non incrociare lo sguardo dei bocciati. Due posti in là dal mio, l’unica giovane della sala: neolaureata in scienze della formazione, insegnante di scuola elementare in una paritaria da quattro mesi. Lei non l’ha passato, e sospirava triste.
Così sono tornato a scuola, certamente un po' fiero del mio risultato, ma anche un po’ triste, per le sorti della scuola. Non so se il campione dei miei incontri di stamattina corrisponda alla media degli aspiranti insegnanti. Forse no. Ma certamente le modalità con cui questo concorso è stato progettato garantiscono poco a proposito delle motivazioni e della qualità degli aspiranti insegnanti.

Ora che sono tornato a scuola (e scrivo mentre i miei alunni fanno un tema), ripenso alla mia storia di questi anni di insegnamento, e penso che, se avessi dovuto farlo per i soldi o per la comodità, forse questo lavoro sarebbe stato davvero poco entusiasmante. E allora questo Concorsone (chissà come finirà...) si è rivelato niente meno che un’occasione per ridare un giudizio sulla ragione del mio impegno e ringraziare chi in questi anni mi ha insegnato ad insegnare, comunicandomi un entusiasmo nel fare scuola che non dipende dalla scuola stessa, ma dalla coscienza che l’educazione è «l'introduzione alla realtà totale».