Marco Bersanelli.

Educare alla verità, sfida per la scuola

Verso il convegno nazionale della Cdo Opere educative, dall'8 al 10 marzo. L'intervista a Marco Bersanelli, ordinario di astrofisica all'Università degli Studi di Milano, che sarà tra i relatori
Marco Lepore

«La passione per il bene dei ragazzi e l’amore per la propria disciplina». Sono queste le qualità principali di un buon insegnante secondo Marco Bersanelli. Ordinario di astronomia e astrofisica e direttore della Scuola di dottorato in fisica, astrofisica e fisica applicata all’Università degli Studi di Milano, Bersanelli ha partecipato a due spedizioni scientifiche al Polo Sud ed è fra i responsabili scientifici della missione spaziale Planck dell’Agenzia Spaziale Europea, dedicata allo studio dell’universo primordiale. Bersanelli sarà uno dei relatori nel Convegno nazionale della CdO Opere Educative dal titolo «Scopo della scuola è l’educazione della persona» che si terrà da domani a domenica a Pacengo Di Lazise, in provincia di Verona.

Professore, che cosa significa amare la propria disciplina?

Di recente, incontrando i nuovi studenti di fisica alla prima lezione del corso di meccanica, mi è venuto da dire così: «Stiamo iniziando un corso di quaranta ore, distribuite in un semestre, e potremo ripercorrere un cammino di quattro secoli, diciamo semplificando da Galileo a oggi, quattro secoli di intuizioni, di scoperte di alcuni dei più grandi geni dell’umanità. In quaranta ore potremo capire, non genericamente ma in profondità, le leggi fondamentali della meccanica, la gravitazione universale di Newton. Pensate che cosa avrebbero dato un Aristotele o un Archimede per poter essere qui con noi». Ecco, credo che la prima necessaria qualità di un insegnante sia quella di sentire la portata di ciò che sta per succedere a quei ragazzi attraverso il contenuto e la storia di cui egli stesso è il testimone. Una maestra di prima elementare dovrebbe moltiplicare questa coscienza per mille, perché insegnare a leggere e a scrivere implica una storia che arriva fino agli albori della civiltà. Amare la propria disciplina significa sentire la portata dell’avventura in cui siamo e in cui invitiamo i nostri ragazzi a entrare.

E che cosa vuol dire passione per il bene dei ragazzi? Non è un concetto un po’ vago?

Al contrario, è la cosa più concreta, perché è quella che maggiormente incide sul nostro modo di insegnare. Lo scopo dell’insegnamento non può limitarsi a far sì che il ragazzo esca dalla scuola «sapendo tante cose», ma deve tendere all’educazione, alla formazione della personalità del ragazzo, a far emergere la sua ragione e la sua libertà. Ma ciò non avviene se non attraverso una immedesimazione con l’umanità di quel ragazzo che hai davanti, attraverso un’affezione al suo bene intero. Questo struggimento per il bene dell’altro viene prima di qualunque tecnica messa in campo, e senza questo rimaniamo deboli come forza educativa.

Quali sono oggi le difficoltà principali nei ragazzi nei confronti dello studio e della ricerca?
Direi che si è indebolita l’idea di futuro.

Si riferisce alla crisi economica, l’incertezza del lavoro per il domani?

Certo, ma forse non è solo questo. Il futuro sembra aver perso un po’ della sua dimensione di possibilità, di imprevedibilità. Ad esempio, oggi non esiste più un angolo della terra che sia ignoto. Su Google Earth ogni metro quadrato del pianeta è mappato, e fra pochi anni avremo risoluzioni ben maggiori. Questo ha un impatto nell’immaginazione dei giovani, e anche di noi meno giovani. Secondo fattore: è scomparsa l’esperienza del cielo. La visione della notte stellata, con il suo carico di ignoto e di immenso, è estranea all’esperienza dei ragazzi. Quando tengo qualche lezione nelle scuole, faccio alzare la mano: «Chi ha mai visto la Via Lattea, almeno una volta?». Di anno in anno il numero di mani che si alzano tende a zero. Il senso dell’immensità è quasi assente. La terra non ha più segreti, il cielo non si vede. E poi c’è una sfumatura sempre più tenue tra ciò che è reale e ciò che è virtuale. Tutto questo conduce a una nuova sfida: o l’immaginazione è sostenuta da un senso pieno della realtà, della vita, da un gusto dell’imprevisto, oppure rischia di perdersi. «Un imprevisto è la sola speranza, ma mi dicono che è una stoltezza dirselo», scriveva Montale. Ecco, credo che come educatori dobbiamo percepire anzitutto per noi la categoria del possibile, dell’imprevedibile, perché c’è un mistero che grida nella realtà che nessun tipo di conoscenza già acquisita può esaurire.

Quale dovrebbe essere lo scopo della scuola?
La scuola è efficace, è sé stessa se suscita nei giovani una simpatia profonda per il reale, se facilita lo sviluppo di un uso pieno della ragione e della libertà, del gusto per la verità e la bellezza delle cose, fino al loro significato ultimo. E questo non facendo discorsi aggiuntivi, ma attraverso le discipline: infatti insegnando qualunque materia particolare, indichiamo implicitamente un punto di vista su tutta la realtà. Diceva don Julián Carrón: «Educare alla ragione vuol dire educare a un rapporto così vero con la realtà che mi impedisca di bloccare la dinamica verso la totalità». La ragione è esigente: non si accontenta di risposte parziali, reclama una risposta esauriente. La domanda particolare, la curiosità particolare non nasce in modo chiaro e proporzionato se non c’è questo allenamento all’uso della propria umanità intera.

Qual è la differenza tra lo scopo di una scuola statale e di una paritaria, ad esempio di una scuola cattolica?
Che una scuola sia statale o paritaria lo scopo dovrebbe essere lo stesso: educare la ragione e la libertà dei giovani. Una scuola cattolica, in particolare, non ha il compito introdurre surrettiziamente una certa ideologia cristiana, ma di offrire la propria ipotesi educativa alla libertà dei giovani. Casomai la sfida sarà quella di domandarsi: ma un’esperienza cristiana vissuta autenticamente e criticamente è in grado, oppure no, di facilitare l’educazione del soggetto, della persona? E su questo dobbiamo sottoporci a verifica, non è scontato. Da fisico sperimentale sono abituato a paragonarmi con l’evidenza, con i dati che la realtà pone. Occorre essere umili di fronte al dato, essere disposti a correggersi, a trovare il modo di essere più adeguati, o meno inadeguati, al compito che abbiamo. È vero o non è vero che una certa scuola è in grado di generare un soggetto libero e consapevole, all’altezza delle sfide a cui è chiamato? Allo stesso modo, chi ci governa dovrebbe porsi seriamente la domanda: queste esperienze educative sono, oppure no, un valore aggiunto per la società? E se lo sono, vogliamo soffocarle o permettere loro di esistere?.