Il cardinale Scola all'Istituto Sacro Cuore di Milano.

Imparare a vivere, vivere davvero

L'arcivescovo di Milano Angelo Scola ha incontrato gli studenti dell'Istituto. Rispondendo alle domande e alle provocazioni dei ragazzi, tra educazione, esperienza e vocazione. Ecco il racconto di una studentessa

«Un principio esistenziale sintetico che consenta uno sguardo sul tutto». È questo che cerca oggi un’Europa frammentata, è questo che cerca il nostro io. Il cardinale Angelo Scola, incontrando mercoledì 3 giugno, centinaia di ragazzi della Fondazione Sacro Cuore è partito proprio da questo. «Ci occupiamo di problemi che non toccano l’essenza della vita», per questo «guardare a tutto l’uomo e a tutti gli uomini ci è oggi difficile. La frammentazione del soggetto sta vincendo a tutti i livelli». L’anno scorso, incontrando le scuole al teatro Dal Verme, descriveva la società odierna attraverso l’immagine dello shard, il palazzo-scheggia che svetta nello skyline di Londra. In tale contesto ciascuno di noi ragazzi, per definizione io-in-relazione, può cambiare il mondo solo cambiando se stesso. Alla domanda di Irene sulla valenza della fede nel mondo in questo momento storico, il Cardinale ricorda le parole di san Paolo agli Efesini che invita a «ricapitolare in Cristo tutte le cose». Questo principio di unità può avvenire solo a partire da un incontro personale con Cristo.

Infatti questo rapporto costitutivo prevede sempre due interlocutori. «Cristo sembra lasciarci soli in quello che viviamo», ribatte Marta, e il Cardinale citando sant’Agostino, afferma che il novum portato da Cristo, «la redenzione di Cristo, è diretta alla libertà dell’uomo. Il novum che stravolge non ha niente di automatico, deve accedere attraverso ciascuno di noi». Ed è proprio per questo che «i tempi e i modi di questa novità non sono nelle nostre mani, ma hanno bisogno del coinvolgimento di tutti». Un esempio commovente è la testimonianza dei cristiani martiri del giorno d’oggi, non così lontani da noi nella coscienza che «esiste anche una dimensione quotidiana del martirio, che consiste nella pazienza, nella sopportazione delle difficoltà e del peccato che commetto». La nostra libertà è dunque in continuo rapporto all’incontro originario che ci costituisce. Proprio nella «consapevolezza di questo debito verso il creatore» si scopre allora la «vita come vocazione, dalla quale discende come conseguenza la scoperta della propria vocazione particolare», afferma il Vescovo in risposta alla domanda di Pietro. L’esigenza di capire a cosa siamo chiamati trova soddisfazione in un continuo rapporto con la circostanza.

Il racconto della propria esperienza vivifica le parole pronunciate. «Io ero in montagna con alcuni amici di Lecco, avevamo pochi soldi e amavamo queste gite organizzate dalle parrocchie perché ci permettevano di godere delle Dolomiti gratuitamente. Una sera ci dicono che sarebbe venuto don Giussani a trovarci con altri ragazzi. Decidemmo allora di fermarci a dormire in una ex casa del fascio, ormai decadente. Era piena di nastri cattura mosche e appesi a questi qualcuno aveva posizionato delle palline abbastanza squallide. Seduti a cena un prete che ci accompagnava, disse una frase che mi rimane ancora oggi scalfita nel cuore: "Se Gesù non centra anche con queste palline, la fede non ha senso". Da lì ho ricercato il nesso con Gesù e la mia vita quotidiana, fino a decidere di diventare sacerdote».

Chiara, poi, ha chiesto come è possibile avere lo stesso sguardo di perdono di Gesù morente; Michele ha invitato ad un giudizio sulla laicizzazione del mondo e Alice ha citato le parole del Cardinale sull’Expo 2015, chiedendo come questo evento possa essere «occasione per la comunità a rivivere la propria anima». In risposta il Cardinale cita Nietzsche, come più grande provocazione al singolo cristiano. Il filosofo affermava: «Sarei disposto a credere un po' di più a Gesù se vedessi nei cristiani un volto da risorti». È questo il volto di Gesù morente, è il volto dell’innamorato, è il volto trasfigurato dalla «logica dell’incontro, che si verifica seguendo la convenienza dell’autorevolezza». Qui si gioca il ruolo fondamentale dell’educazione, per cui «cultura non è intellettualismo ma piuttosto assecondare la realtà in atto, lasciando emergere le domande che essa pone». La laicizzazione del mondo, infatti, è una circostanza con cui la realtà ci interpella. «Il tempo non dipende da noi, le circostanze nemmeno. La realtà così come è sempre un bonum, anche quando urge una re-azione. Ogni tempo è quindi tempo di ad-ventura», e ciascuno di noi in questa circostanza è chiamato a «re-agire con tutta la nostra creatività, vivendo pieni di attrattiva, attaccati alla consapevolezza incrollabile che la salvezza si sta esplicando nella storia».

L’esperienza di fede però, l’individuazione di un principio sintetico non è ovvia, ci è chiesta quindi la carità di «tradurre l’esperienza che viviamo e il linguaggio con cui la esprimiamo affinché tutti possano capirlo». Ne va della vita di ciascuno, e ne va del mondo intero. «Che linfa mettiamo nelle foglie della nostra società odierna?», chiede l’Arcivescovo. «Senza linfa non c’è anima, unità e vita. Per questo», conclude il Cardinale, «voi ragazzi avete un grande compito. Non mi interessa che parliate di Cristo alle riunioni con i capi, ma la sera con gli amici davanti ad una pizza. Il cristianesimo, ragazzi, non va ridotto a riunione e per questo è necessaria una personalizzazione della fede: nella comunità dei fedeli ma con personalità!».

Dopo cinque anni di liceo, affacciata al mondo che mi aspetta, credo che l’augurio più sincero sia quello di «vivere, vivere davvero», con tutta la profondità e la complessità che questo verbo comporta. Il Cardinale cita una lettera inviata a don Giussani da una monaca, essenziale nell’abbrivio: «Caro don Giussani, vivo,…». Il verbo vivere acquisisce un nuovo respiro, una nuova forza e dignità. Ma la riflessione allora si sposta ad un livello ancora più radicale: perché vivere? Cosa ci mette in moto la mattina? Per chi o per che cosa viviamo?

Chiara, V liceo scientifico