Alcuni volontari di Portofranco.

Quel "doposcuola" con la libertà nel dna

Il 12 ottobre la Giornata d'inizio anno per i volontari della onlus che aiuta nello studio i ragazzi delle superiori. Professori e universitari hanno raccontato la loro esperienza con quei giovani «non abituati a ricevere così tanto»
Paolo Perego

L’ingrediente irrinunciabile? «Si chiama gratuità. È solo questa che costruisce». Alberto Bonfanti, insegnante di Filosofia in un liceo milanese, è una delle “colonne” storiche di Portofranco, associazione che da oltre quindici anni si occupa di aiutare i ragazzi delle superiori alle prese con le difficoltà dello studio. «Una storia nata con don Giorgio Pontiggia, nel novembre del 2000. Un sacerdote con la passione per i ragazzi e la loro educazione, di cui in questi giorni ricorre il settimo anniversario della morte», dice Bonfanti, prima di presentare Emmanuele Forlani, chiamato a succedergli qualche mese fa alla presidenza della onlus di viale Papiniano a Milano.

Qualche numero, dai quasi duemila ragazzi all’anno, di ogni etnia e tipologia di scuola. che vengono al pomeriggio tra i banchi di Portofranco, fino ai agli oltre quattrocento volontari, tra insegnanti, in pensione e non, e universitari che aiutano, ognuno nella materia di cui è più esperto, a tenere la testa sui libri e accompagnano lo studio. E poi i saluti alle autorità cittadine presenti e ai benefattori. In prima fila, anche il vicesindaco e assessore all’istruzione del Comune di Milano, Anna Scavuzzo.

I numeri e i risultati, «anche quelli che sentirete nelle testimonianze tra qualche minuto, non bastano a spiegare Portofranco. La chiave di tutto è nella gratuità. Solo questa, permette all’altro di crescere», torna a dire Bonfanti prima di lanciare uno spezzone del film I miserabili, tratto dal romanzo di Victor Hugo. Pochi minuti, con il protagonista, Jean Valjean, trovato dalle guardie con dell’argenteria rubata a casa del Vescovo Myriel che lo aveva ospitato la notte prima, che viene difeso dal prelato: «Glieli ho dati io. Anzi, vi siete dimenticato i candelabri. E ricordate che avete promesso di diventare un uomo diverso».























È Annarita, signora invitata da un’amica a dedicare un po’ del suo tempo a dar lezioni ai ragazzi, ad aprire la carrellata di interventi: «Non sono un’insegnante. Sono arrivata qui molto scettica». Pensava all’ennesima iniziativa “sociale” che alla fine lascia il tempo che trova, magari facendo arricchire qualcuno… «E invece, ribaltata!», dice Annarita. «Incontrare i ragazzi, coi loro talenti, le loro difficoltà. Scoprire con loro che non sono appena il voto che prendono a scuola. È stato un dono». Nei pomeriggi in cui viene a far studiare Storia, porta sempre un quotidiano. «Per far capire agli studenti il legame tra quello che c’è nei libri e quello che il mondo vive oggi». Funziona? Si appassionano? «A volte mi viene il dubbio, certo. Non è automatico. Ma una sera, dopo la lezione, una ragazza musulmana ha iniziato a fare domande, partendo da quello che avevamo studiato». Annarita si lascia prendere dalla discussione: «Ho perso due treni. E lei chiedeva di tutto, sulla religione, sull’attualità. Su di me: “Tu credi in Dio?”. E sono atea… Aveva bisogno di essere ascoltata. Ed era un regalo per me».

«Questa è una casa. La mia», dice Carlo, universitario della Cattolica, al suo quarto anno da volontario tra i ragazzi. «Venivo a farmi aiutare quando ero alle superiori, e oggi vengo a dare una mano». Qualche ora di Italiano il mercoledì pomeriggio. «Pochi giorni dopo gli attentati di Parigi nel novembre scorso, con un ragazzo musulmano stavamo leggendo la novella di Boccaccio su ser Ciappelletto», la menzognera confessione di un uomo in letto di morte per non creare scandalo intorno a chi lo ospitava. «Dentro si parla dei sacramenti… Ho dovuto spiegargli tutto, da chi è il Papa a cos’è la confessione. E non so, alla fine, quanto sia passato di Boccaccio. Ma in un clima come quello che si respirava in quei giorni, era la possibilità di incontrarsi, di capire chi si è e chi si ha di fronte. E mi sono chiesto che cosa avevano incontrato, invece, gli attentatori francesi».























Insomma, a Portofranco non c’è solo lo studio. Accadono incontri. Anche tra stranieri e religioni diverse. «Passa da qui, oso dire, l’integrazione. E per alcuni è una rinascita che accade dentro questi rapporti in cui uno, guardato gratuitamente, inizia a interessarsi a tutto e anche a se stesso». È Daniel, 24 anni, a prendere il microfono e a raccontare la sua storia. È uno dei ragazzi di don Claudio Burgio, cappellano del carcere Beccaria di Milano che ha fondato una associazione per il recupero dei piccoli detenuti. È in questo contesto che incontra Fiorella, Ex insegnante. «Mi sono diplomato l’anno scorso. La prima volta che era venuta mi aveva detto che avevo talento, che dovevo finire la scuola che avevo abbandonato. “Bello, ma lo fa per dire, figurati se poi torna a dirmelo…”, avevo pensato». E invece, rieccola. Con la sua idea di studiare a Portofranco e di affrontare la maturità da privatista: «Oggi torno qui appena posso, come volontario. Anche se con l’università gli impegni sono tanti. È una delle cose più belle che abbia mai visto. Non c’è qualcosa di particolare che me lo fa dire, perché ogni istante qui dentro lo è. E ogni sera quando torno a casa… “Che bello!”». Non è una storiella quella della gratuità, dice ancora: «Chi mi ha aiutato mi ha sempre detto che lo faceva anche per se stesso. Ora vivo anche io la stessa cosa. Ne ho bisogno, mi fa crescere».























Dopo Daniel, Clara. Quarantadue anni di cattedra alle spalle, trascinata dalla figlia, a fine carriera, a dare il suo apporto nei pomeriggi di Portofranco: «Avevo un’idea dell’insegnamento. Mi chiedevo se era possibile “vivere” davvero i ragazzi anche standoci insieme solo un’ora o due alla settimana. Serviva la continuità nel lavoro con loro… Ho provato. E, miracolo, già dopo poco tempo con loro riuscivo a capirli». Una ragazza, dopo il miglioramento dei suoi voti, è tornata da Clara: «A fine lezione ha frugato nello zaino e ha tirato fuori dei cioccolatini per me “Non è necessario… Ti pare?”. E lei: “Al contrario, quello che è successo non è scontato”. Mi sono sorpresa: ma cosa offre il mondo fuori? Davvero i ragazzi non sono abituati a ricevere “tanto”».

«C’è una libertà che impressiona», commenta la vicesindaco Scavuzzo, chiudendo l’incontro prima di un piccolo momento di festa: «Non ha a che fare con l’individualismo della scelta, ma con la bellezza del prendersi cura di qualcuno. Una libertà che si trasforma nell’incontro con l’altro». E Portofranco, questa libertà, c’è l’ha nel suo dna. Porto-franco, appunto.