La città di Kobe, in Giappone.

Una familiarità lunga diecimila chilometri

Cinque professori e trentacinque studentesse giapponesi che sbarcano a Milano per studiare una piccola scuola milanese. È il frutto inaspettato di un rapporto nato tre anni fa. Che oggi ha il sapore di un'amicizia sorprendente
Carmela Bruno*

Li stavamo aspettando da mesi. Oggi arrivano. Cinque professori e 35 studentesse dal Giappone. Passeranno da noi per vedere “di persona” la nostra scuola. Sarà un’avventura, certo. E a pensarci adesso, che attendiamo di vederli tra aule e corridoi, mi sorprendo ancora di più di come è nata questa avventura veramente imprevedibile.
Due anni fa ricevo una telefonata. È la signora Wakako Hirabuki, referente in Italia dell’università femminile di Kobe Shinwa in Giappone. Mi chiede se la nostra scuola dell’infanzia è disposta a ricevere la visita di una delegazione di studentesse - future insegnanti - dell’università.
Ho risposto che ne saremmo state onorate. Quando ci incontriamo la signora mi spiega che era rimasta molto colpita dalla mia accettazione entusiasta al progetto. Così è cominciata la nostra avventura con quel mondo e con quelle persone che sono state con noi per nove giorni. Si sono sentiti così ben accolti che a settembre sarà ormai la terza volta che verranno a visitarci. Ma l’evento più clamoroso è stato l’invito da parte del Rettore della loro università a partecipare, nel mese di giugno, al “Simposio Internazionale di Pedagogia”, che per la città di Kobe è un vero evento. Ci hanno chiesto inoltre di tenere quattro lezioni sul sistema educativo in Italia e sul progetto pedagogico della nostra scuola. Siamo partite, io e la mia collega Isabella, chiedendoci cosa volesse da noi il Padreterno per mandarci all’altro capo del mondo. Anche in aereo abbiamo pregato perché ci suggerisse Lui le parole giuste.

Al nostro arrivo ci siamo accorte che la loro accoglienza andava oltre la gentilezza tipica delle loro consuetudini: tutti erano veramente attenti e sinceramente interessati a noi e al nostro lavoro. Volevano conoscere il metodo della nostra scuola cattolica. In tutte le lezioni che abbiamo tenuto, le loro domande spostavano di volta in volta l’attenzione dal sistema educativo italiano, alla nostra esperienza.
Abbiamo raccontato che la nostra impostazione educativa e didattica nasce dal riconoscimento del primato della persona umana in quanto creatura e che vogliamo accompagnarla a conoscere tutta la realtà, che è positiva perché anch’essa creata. Per dare l’idea: una mattina abbiamo riflettuto due ore riguardo alla traduzione in giapponese della parola realtà. E ancora: per noi un bambino non è meno uomo di un adulto, infatti come dice Guardini entrambi sono solo in un punto diverso del cammino verso il compimento del loro destino; ed è l’unità del gruppo degli adulti (non solo gli educatori, ma tutto il personale della scuola) che crea un clima educativo coerente.
Più parlavamo di rispetto per la dignità di ogni bambino, di valorizzazione di ogni talento per migliorare l’autostima e la fiducia in loro stessi, più ci accorgevamo che questi discorsi avevano un impatto su di loro come persone, prima che come docenti. Abbiamo visto crescere in loro il desiderio di aprirsi, di lasciare libero sfogo alla loro umanità, di uscire dagli schemi della loro cultura, dagli stereotipi delle loro abitudini (inchini, sorrisi, biglietti da visita… poche strette di mano, per loro forse troppo confidenziali).

I docenti universitari ci incalzavano di domande e volevano che spiegassimo alle studentesse come e perché ogni anno noi scegliamo un tema che faccia da filo conduttore di tutte le esperienze che proponiamo. Abbiamo raccontato che il progetto di quest’anno “Cammina l’uomo quando sa bene dove andare” (frase di san Francesco resa a noi nota da una canzone di Claudio Chieffo), è stato documentato dal racconto dell’esperienza del pellegrinaggio a Santiago vissuto da una nostra maestra. Sono rimasti affascinati da questo modo di intendere il viaggio - l’importanza della meta, l’accettare la fatica per raggiungere lo scopo, il valore della compagnia che aiuta a superare lo sforzo -, tanto che hanno iniziato a chiederci il significato e il valore del “pellegrinaggio”, esperienza a loro sconosciuta.
La sera del simposio, ci hanno invitato tutti a cena. Inaspettatamente, abbiamo cantato insieme, e professori che fino a quel momento erano stati rigidi e riservati si sono lasciati coinvolgere. La cosa incredibile è che, nonostante per comunicare tra noi avessimo sempre bisogno della mediazione dell’interprete, si è creato un clima di familiarità inaspettato. Qualcuno ha detto: «Questa sembra una grande famiglia». Abbiamo portato in regalo al vice Rettore Il senso religioso, ed Il rischio educativo alla professoressa di Pedagogia. Abbiamo spiegato che don Giussani è stato il nostro maestro all’università e nella vita, che è ormai considerato tra i più grandi pedagogisti del ‘900. Da lui abbiamo imparato questo sguardo sulla realtà e sulla persona.
Ci siamo lasciati tutti con le lacrime agli occhi, abbracciandoci e baciandoci, con la grande aspettativa di rivederci a settembre. Ora il momento è arrivato. E l’avventura continua.


*Direttrice delle scuole dell’infanzia “Maria Consolatrice" e "Regina Mundi”, Milano