I ragazzi durante lo spettacolo.

A Mosca, a Mosca!

Il “Delitto e castigo” messo in scena dagli studenti bergamaschi sta per arrivare nella capitale russa. Intanto, in Siberia, «si è reso possibile l’impossibile». Parola degli «ormai amici» ortodossi
Angela Perletti

Non riesco a raccontare in poche parole ciò che è accaduto in questi ultimi giorni a Kemerovo. Forse perché davvero, come ci hanno ripetuto i nostri ormai amici ortodossi, si è reso possibile l’impossibile.
È stato il tempo della pienezza. Le repliche. La tensione, totalmente diversa dal giorno precedente, con cui eravamo sul palco e dietro le quinte. La contentezza dei seminaristi russi che è esplosa nell’intonare il Mnogaja Leta, un canto di ringraziamento e buon augurio, al termine dello spettacolo. La disponibilità senza esitazioni con cui le mie compagne hanno imparato in pochi minuti le mie battute e mi hanno sostituita nell’ultima replica, perché ero stata male: «La parte di una è la parte di tutte», hanno detto.
E l’incontro con padre Sergij, ieri sera. Il sacerdote ortodosso da cui è partito l’invito di noi, 40 studenti della scuola La Traccia, dalla Bassa bergamasca in Siberia per recitare Delitto e castigo. Certamente è stato ciò che più mi ha colpito in tutta questa settimana. Forse perché in quel momento ho riguadagnato tutto il resto, l’ho guardato con occhi nuovi e ho capito, solo un poco di più, di che accadimento sono stata ospite. Io, proprio come quell’asino nella capanna di Betlemme di cui vi parlavo nella prima puntata di diario (v. Tracce.it). Perché questo prete ortodosso dalla grande stazza, che ci ha voluti qui e che ha scommesso tutto su di noi, quella sera si è messo a nudo, raccontando quel che è accaduto dopo il nostro arrivo, quello che lo ha cambiato. «Devo chiedere perdono a Dio, perché oggi, mentre celebravo la Liturgia, ho pensato più a voi che a Lui». E ancora: «Siete stati più di quel che desideravo». «È accaduto l’impossibile, è accaduto l’impossibile!», ripeteva sua moglie. «Sergij sembra resuscitato!», ha detto qualcuno. Proprio come Lazzaro nel passo del Vangelo che, in Delitto e castigo, il protagonista Raskol’nikov chiede di leggere a Sonja. «Il punto è che Cristo dice al suo amico: “Vieni fuori!” E io ho dovuto decidere...», ha continuato poi Sergij.
È vero che sembra resuscitato, ma io non so ridire come. Non sono nemmeno stata capace di raccontare bene di quella sera. E me ne rammarico. Però posso scrivere, con mano ferma, di tutti quegli altri Lazzaro che in questa settimana hanno deciso di «venire fuori». Il nostro regista Roberto Rossi per primo, perché l’ho visto così diverso, così contento, così commosso. Oppure, un’amica che mi dice di aver capito solo ora cosa voglia dire concretamente che dodici apostoli hanno deciso di seguire Gesù e perché non sia così assurdo mollare tutto per andare in missione in Siberia o in qualsiasi altro posto. E la sincerità e la libertà con cui abbiamo parlato delle cose più care. E poi io. Non sono mai lasciata tranquilla, fortunatamente. C’è sempre qualcosa, come le parole di Sergij, che mi scuote e mi rimette in moto. Magari con le idee meno chiare, ma con la voglia di vivere appieno, di capire, di seguire. Infatti, quello che ora mi fa sorgere un sorriso sulle labbra è che adesso, qui in camera, si stanno preparando le valigie per Mosca. Insomma, non è finita. E desidero che tutta questa abbondanza di fatti, parole e volti si riversi, trasbordi, esondi in questi nuovi giorni moscoviti.