La domanda indistruttibile

La notte del sisma. Il bisogno improvviso di essere insieme. E lo sgomento, perché la vita di una comunità felice è spazzata via da un momento all'altro. Allora «perché spendersi, lavorare, mettere su famiglia? Qual è lo scopo di ogni istante?»

La terra che ruggisce e si scuote nel cuore della notte. Alcuni impercettibili attimi, incoscienti, in cui attendi invano che tutto si fermi, si ricomponga; poi le urla e la corsa confusa in strada, di cui non ricordi nulla, se non qualche particolare insignificante. I primi occhi che incontri sono quelli increduli dei familiari, poi quelli della vicina di casa in vestaglia con i bambini (alcuni hanno paura, altri, più piccoli, sono divertiti dalla situazione insolita). E sorge, spontaneo, un bisogno improvviso di incontrare il vicino, afferrargli il polso per dire che sì, ci siamo ancora.
Il freddo della notte si fa pungente, ma pare essere l'ultimo dei problemi. Con una voragine nello stomaco stringi gli affetti che hai intorno e attendi il prossimo tuono, quasi che quella catena di corpi possa davvero, per un attimo, impietosire la natura, attutire il prossimo colpo. Poi iniziano le telefonate frenetiche ad amici e parenti, le prime sirene, gli elicotteri che sorvolano il cielo ancora buio.

Così è passata la prima notte della maggior parte dei residenti di Ascoli Piceno. L’alba è ancora più straziante: la città è stata lambita dalla tragedia, ma poco più in là, ad appena 30 chilometri, si trovano (anzi, ora non più) paesini spazzati via, rasi completamente al suolo. In mezzo al cumulo di macerie ripreso dalla tv riconosci angoli ed immagini legate all’infanzia e al recente passato, e così inizia la ricognizione di amici, parenti, conoscenti.
La mattina seguente è un'escalation infernale di numeri: i deceduti, i dispersi, i feriti. Venti, trenta, quaranta morti. Un numero che cresce vertiginosamente di ora in ora. Si fa fatica anche ad immaginarli reali quei corpi trucidati, quelle comunità intere scomparse. Eppure sono lì, a pochi chilometri.

Le immagini non fanno che accrescere l’angoscia ed il dolore: tutto ciò è ingiusto, disumano, inconcepibile. Un uomo in lacrime, in un negozio, piange la morte del nipote di appena quattro anni. Si trova lì nel gravoso compito di acquistare un vestitino adatto per consegnare la piccola salma alla terra. Proprio a quella terra traditrice che in un attimo ha distrutto le sicurezze, i progetti e i sogni di una comunità felice. Sì, perché le vittime della tragedia sono paesi che vivevano nell’incanto incontaminato della natura che esplode ai piedi dei monti della Laga. Un’oasi di umanità, lontana dai clamori, dalle storture e aberrazioni della città. Comunità che vivevano in una sobrietà regale per dignità, compostezza ed ardore; comunità che resistevano senza troppo affanno all’assalto della globalizzazione mantenendo un’autenticità originale nei rapporti, nel sostegno reciproco e una fedeltà coriacea alle tradizioni, che erano diventate il punto di forza trainante del turismo di quelle zone. Proprio queste comunità abituate a convivere con le asprezze della montagna, con la natura ostica, dalla stessa natura vengono spazzate via con una violenza inaudita, senza scampo. Tutto ciò contribuisce ad accrescere il senso di ingiustizia, di rifiuto quasi fisico di una strage così umanamente incomprensibile.

La tragedia, questa volta, non è un film che si guarda in tv, tocca le vite di amici, conoscenti e volti anche solo intravisti. Le vite che se ne sono andate, e le vite che sono rimaste. Quelle vite smarrite, a cui è stato tolto tutto: affetti, sicurezze, ciò che si è costruito per una vita intera. Ma soprattutto a cui è stato consegnato, come a tutti noi, il terrore e lo sgomento nell’accorgersi che tutto quello che abbiamo, o che crediamo di avere, ci può essere tolto. Da un momento all’altro. Senza alcun preavviso.

È così che mi sono tornate in mente le parole di Julián Carrón dopo i tragici eventi di Parigi: «La nostra vita è appesa ad un filo». Sconcertante, inaudito, ma tremendamente vero. La cosa più scontata che crediamo di avere - e sul quale fondiamo ogni nostro sogno, ogni progetto - ci può essere tolta da un momento all’altro, "stasera stessa". Proprio come accaduto a tutte quelle famiglie a pochi chilometri. È questo sgomento che riempie gli occhi della gente nei bar, nelle piazze. È questo pensiero taciuto che predomina e sembra gettare un’ombra su tutta l’esistenza: ciò per cui fatico, lavoro e mi spendo può essere spazzato via adesso, ridotto in polvere, come quello spaventoso cumulo di cenere che si vede sorvolando Amatrice, Arquata e Pescara del Tronto. Ma allora che senso ha questa vita? A che pro spendersi, costruire, lavorare, mettere su famiglia? Qual è lo scopo di ogni istante che ci viene dato?

Sempre Carrón in quell’audace comunicato dice che questa domanda, «questa ricerca di significato è l’unico antidoto alla paura che ci assale guardando la televisione in queste ore, è il fondamento che nessun terrore può distruggere». Cioè, proprio quella domanda che sembra darci tormento, quello spaventoso abisso che si legge negli occhi della gente in questi giorni e che sembra essere la causa di questa angoscia indomabile, è invece per lui l’«antidoto alla paura», ciò che «nessun terrore può distruggere». Evidentemente questo passaggio doveva essermi sfuggito dopo i fatti di Parigi. Oppure, più semplicemente, occorreva che la tragedia entrasse nella carne, mi toccasse fin dentro le viscere, affinché io mi accorgessi della portata assolutamente rivoluzionaria di questa affermazione.

Allora ho semplicemente iniziato a guardare. E la prima cosa di cui mi sono accorto è che l’esser stati sfiorati dalla tragedia, il sentirsi così umanamente coinvolti con il dolore indicibile delle vicine popolazioni afflitte dal terremoto, ha come generato un’unità attorno a quel nucleo indistruttibile che è proprio quella domanda di senso sulla vita di cui parlava Carrón. È come se il terremoto, insieme alle case, avesse sotterrato le preoccupazioni che abitualmente ci assillano e avesse invece disseppellito quella domanda bruciante, urgente, capace di dare voce al grido umano di ognuno. Il dialogo al lavoro, in famiglia, al bar, dopo un primo soffermarsi sul numero di morti e sulle conseguenze della tragedia, arriva senza troppi fronzoli a questo nocciolo indistruttibile, questa domanda originaria che brucia tutte le distanze fra gli uomini. Mentre per 365 giorni l’anno si urla e ci si divide sulle diverse "risposte" (spesso ideologiche) in ogni campo - dalla politica all’economia, dall’emergenze sociali alla cultura -, in queste ore ci si ritrova insieme intorno ad una domanda, quella capitale: che senso ha tutto questo?

È proprio a partire da questa ricerca che ad Ascoli stanno fiorendo una quantità impressionante di iniziative di solidarietà spontanee che provengono dalle parti più disparate, dalle organizzazioni più diverse, tanto che la protezione civile ha dovuto fermare temporaneamente la raccolta per la sovrabbondanza di viveri e beni di prima necessità che hanno inondato le popolazioni colpite. Da questa acuta domanda di senso in cui insieme ci si ritrova, fiorisce la carità, il primo vero germoglio di bene in mezzo alle rovine. Come diceva Paolo VI dopo il tragico terremoto del Friuli: «Il primo bene è la solidarietà; il dolore si fa comunitario, e nel nostro abituale disinteresse, e nelle nostre contese egoiste ci fa sperimentare uno sconosciuto amore. Ci sentiamo fratelli, diventiamo cristiani, comprendiamo gli altri, esprimiamo finalmente l'amore disinteressato, solidale e sociale».
Proprio così. Nel cuore del dolore di paesi e vite devastate campeggia indistruttibile questa domanda di senso, che è il vero motore di ogni gesto di carità che in queste ore sta sorgendo. E nello sguardo pieno di smarrimento spunta il fiore fresco, indifeso, eppure potentissimo, della carità.

Di fronte alle urla e alle immagini di dolore che ci bombardano in tv, questo fiore appare così fragile ed inincidente, una goccia nell'oceano di bisogno che sta inondando il piceno, eppure sorgente viva di speranza. Perché se - come ci si augura - con il tempo e la fatica di un popolo si ricostruiranno le case, le chiese e le mura di quei splendidi borghi, la ferita di questi giorni durerà a lungo, non terminerà con la riconquista di un tetto, o con la il sentimento che con il tempo, inevitabilmente, scemerà.

La ferita che stiamo scoprendo in questi giorni è una domanda di senso su tutta la vita, non confinata all’immane contingenza della tragedia. Ma, affinché questa ferita non si chiuda nel cinismo e nella disillusione, e continui ad alimentare la domanda così potente attorno alla quale oggi ci ritroviamo uniti, abbiamo bisogno di uno sguardo di amore e di tenerezza che si pieghi costantemente sulle nostre macerie quotidiane. Anche quando la vita faticosamente avrà riconquistato una normalità. In questi giorni difficilissimi, in mezzo all'emergenza e al dolore, c'è anche la grande occasione di immergerci ed educarci ad uno sguardo così.

Davide, Ascoli Piceno