Aleppo (Siria) devastata dalla guerra.

Ci vuole un "io" per fermare la guerra

Un'analisi della drammatica situazione siriana da parte di padre Sidney Griffith, professore alla Catholic University of America di Washington. Evitando quella «incapacità di pensare» di cui parlava Hannah Arendt, è ancora viva una possibilità di ripresa
Mark Danner

L’attacco degli Stati Uniti contro la Siria - il solo paese arabo provvisto di armi chimiche e presumibilmente solito farne uso - è stato evitato in extremis da un accordo tra Russia e Stati Uniti. Nel contesto della primavera araba il regime siriano ha risposto a dimostrazioni popolari pacifiche con tale brutalità che l’esercito ha iniziato a dividersi in fazioni e l’opposizione siriana si è dovuta armare a scopo di difesa. Nel giro di pochissimo tempo la guerra ha inevitabilmente assunto proporzioni di grande complessità sul piano religioso, regionale e internazionale. Il governo siriano, sostenuto dalla Corea del Nord, dall’Iran e dagli Hezbollah e armato con un arsenale di provenienza russa si è scontrato con un’opposizione civile e militare costituita da sunniti e da alcuni cristiani e capeggiata da formazioni filoccidentali facenti capo all’Esercito siriano libero e comprendenti anche estremisti islamici appoggiati da mercenari stranieri appartenenti all’intero mondo arabo e islamico e sovvenzionati da paesi e privati cittadini del Golfo persico. Su entrambi i fronti sono presenti ladri e signori della guerra, criminali e mercanti d’armi che agiscono in piena autonomia, selezionando i mandanti con il solo criterio del miglior offerente. Se si applica la riduzione manicheista che oppone i buoni ai cattivi è quasi inevitabile perdere di vista il volto intimamente umano della guerra in Siria. Ma per padre Sidney Griffith, professore di Pensiero siriaco e arabo-cristiano delle origini alla Catholic University of America, la Siria è tutt’altro che un’astrazione. Come eminente studioso dei rapporti tra cristiani e musulmani nel primo medioevo è perfettamente equipaggiato per tenere conto della dimensione comunitaria racchiusa all’interno di una dinamica profondamente storica, ecclesiale e culturale. Impegnato per decenni nel dialogo e nell’incontro interreligioso tra musulmani e cristiani, ha appoggiato la Badaliya, associazione di preghiera fondata dal grande studioso francese dell’Islam, Louis Massignon (1883-1962), all’interno della quale i cristiani offrono la propria vita pregando e stringendo legami di amicizia con i loro fratelli musulmani. Molti degli ex allievi di Griffith sono di origini arabe e musulmane e hanno fatto ritorno nei rispettivi paesi arricchiti dal bagaglio della sua erudizione e del suo spirito ecumenico. Tracce ha incontrato padre Griffith per cercare di capire meglio chi sono i protagonisti di questa scena di violenza così minacciosa per tutti.

All’interno del dibattito sull’impegno in Siria la voce della Chiesa rischia di essere bollata come “pacifista”, se non addirittura “ingenua”. Eppure le parole di papa Francesco racchiudono una prospettiva autenticamente umana.
Il conflitto siriano è caratterizzato da grande complessità e pericolosità ed è quindi importante seguire l’esempio di papa Francesco. La sua è innanzitutto una posizione di profondo rispetto per la vita umana, come emerge con chiarezza dal suo invito alla preghiera, al digiuno e alla difesa dei valori umani comuni all’intera umanità. Ha perfettamente ragione quando dice che non possiamo contrastare la guerra con la guerra.

Un’invasione per «motivi umanitari», secondo le parole di Obama, è una contraddizione in termini…
Non è possibile sostenere che un attacco americano contro la Siria avrebbe lo scopo di evitare violenze ai danni dei civili perché questo implicherebbe che moralmente il fine giustifica i mezzi e che compiamo il male in vista di ottenere un possibile bene. Una risposta autenticamente umanitaria non consiste nel portare distruzione bombardando la Siria per castigare Assad, ma piuttosto nel fornire cibo, medicine e acqua.

Papa Francesco ha sottolineato con forza questa contraddizione.
Ma certo. In una situazione come questa bombardare non ha alcun senso. È importante salvaguardare l’obiettività evitando di demonizzare le parti in causa, come ha fatto il Papa nel suo appello a proteggere la vita umana, e non solo quella dei cristiani. Ha dimostrato grande coraggio nel rivolgersi direttamente ai leader mondiali, senza pretendere di fare la morale a nessuno, ma prendendo le mosse dalla verità del Vangelo: le sue parole si basano sempre e soltanto sul Vangelo.

Evidentemente questa minaccia gli sta molto a cuore.
Senza dubbio, dato il suo profondo amore per l’umanità. Non è possibile parlare astrattamente di “danni collaterali” derivanti da un attacco degli Stati Uniti. Qui stiamo parlando di vite umane. Proprio come ha fatto papa Giovanni Paolo II, che alla vigilia dell’invasione americana dell’Iraq nel 2003 ha mandato personalmente un emissario al presidente Bush per richiedere la pace. Alla radice dell’appello di papa Francesco per il rispetto della vita umana vi sono anche motivazioni personali: egli infatti conosce gli effetti della violenza politica, avendoli riscontrati direttamente durante la "sporca guerra" contro l’opposizione di sinistra in Argentina. Il Papa ha espresso tutta la sua preoccupazione nel corso dell’incontro con i gesuiti il 31 luglio scorso, due giorni dopo che si era avuta notizia del rapimento del gesuita padre Paolo Dall’Oglio in Siria. Il Santo padre ha pregato per il «nostro fratello in Siria», riferendosi palesemente a padre Paolo, durante la messa a Roma il giorno della festa di sant’Ignazio. E subito dopo il rapimento il Papa ha rivolto al mondo il suo più accorato appello per la pace.

Lei e padre Paolo siete amici da molti anni. Perché ha affrontato il rischio di un ritorno in Siria l’estate scorsa, dopo che era già stato espulso dal paese?
La sua è una storia molto interessante. Nella sua opera a favore del dialogo interreligioso tra musulmani e cristiani padre Paolo si ispirava all’esempio di Louis Massignon e dei martiri trappisti di nostra Signora dell’Atlante a Tibhirine, in Algeria. Dall’Oglio, che non appartiene al mondo accademico, ha trascorso trent’anni nell’antico monastero siriano di Deir Mar Musa curandone la ricostruzione e trasformandolo in luogo d’incontro per cristiani e musulmani. Sin dall’inizio della rivolta siriana si è pronunciato contro il regime di Assad e di conseguenza è stato espulso dal paese. Alla fine di luglio vi è rientrato attraverso la Turchia penetrando nella zona controllata dai ribelli, convinto che la sua profonda conoscenza della lingua e della cultura locale e i suoi contatti nelle fazioni degli insorti gli consentissero di contribuire a una mediazione delle violente tensioni tra questi ultimi e i curdi presenti in quella regione. A un certo punto però è stato sequestrato da ignoti.

Un altro cristiano vittima della violenza…
Non si sa nulla di padre Dall’Oglio e neppure di un altro mio amico, il vescovo siro-ortodosso Gregorios Yohanna Ibrahim e il suo compagno di viaggio, il vescovo greco-ortodosso Boulous Yazigi. Stranamente i due, pur appartenenti a confessioni diverse, hanno preso parte insieme a una visita pastorale a un campo profughi in Turchia. Al ritorno, nell’aprile 2013, sono stati sequestrati, probabilmente da estremisti islamici. Oltre a questi due episodi, di recente si sono verificati scoppi di violenza ai danni di cristiani, tra cui l’invasione della storica città cristiana di Maalula da parte di varie formazioni ribelli.

Dove si collocano i cristiani all’interno di questo scenario?
La situazione dei cristiani in Siria è piuttosto complessa, dal momento che una parte della comunità e dei suoi vescovi si sono schierati a favore del regime di Assad. Da quando è salito al potere il partito socialista Ba’ath durante la presidenza di Hafez al-Assad, padre di Bashar, alle comunità cristiane è stato impedito di esercitare liberamente la propria fede, come pure di costruire scuole e chiese. Uno dei miei allievi, alla cui ordinazione episcopale ho avuto il privilegio di assistere durante il mio ultimo viaggio in Siria, è attualmente vescovo di al-Hasakah, nella parte nordorientale del paese, vicino al confine con la Turchia. Mi ha detto che è ingiusto criticare i cristiani che non aderiscono alla rivolta contro il regime, perché identificano in Bashar al-Assad il loro difensore. Assad è un pericolo noto, mentre chiunque si impossessi del potere dopo la caduta del regime sarebbe un pericolo ignoto. Anzi, in caso di vittoria dei ribelli alcuni gruppi appartenenti alla jihad riserverebbero un trattamento orrendo alla comunità cristiana. D’altra parte alcuni cristiani hanno invece sostenuto la resistenza: oltre a padre Dall’Oglio ve ne sono altri, tra cui Najib Awad, professore di Teologia allo Hartford Seminary, che ha pubblicato scritti sulla moralità dell’opporsi a regimi oppressivi.

Perciò i cristiani siriani per la loro salvezza non confidano in iniziative internazionali?
La maggior parte dei cristiani siriani ritengono che nessuno dovrebbe intervenire nella politica interna del loro paese, ma sfortunatamente la situazione è talmente tragica che non si può affrontare in questo modo. Una delle nostre suore, presente durante l’attacco dei ribelli a Maalula, ha riferito che molti di loro non parlavano la variante siriana dell’arabo, o addirittura non parlavano arabo affatto. La presenza di stranieri tra le fila degli insorti contro il governo non è un fenomeno prettamente siriano, ma è stato documentato anche durante le guerre in Cecenia, Iraq e Afghanistan.

A suo giudizio i cristiani dovrebbero rimanere, nonostante la violenza e l’incertezza della situazione politica?
Beh, quel paese è casa loro e non sono gli unici a soffrire. La Siria è la culla del cristianesimo delle origini, dal momento che fu proprio in questa regione dell’antica Antiochia che la fede cristiana crebbe e si sviluppò nella fase greca e aramaica. Inoltre i cristiani hanno convissuto con i musulmani sin dalla nascita dell’Islam in Siria, nel VII secolo, perciò quella che è una situazione tragica per i cristiani lo è anche per le comunità musulmane tradizionali, dal momento che quella società l’hanno costruita insieme e che i cristiani sono stati parte integrante della civiltà islamica classica. In questo senso i movimenti militanti islamici costituiscono una minaccia anche per la società musulmana tradizionale. Comunque, in quanto portatori di Cristo, i cristiani hanno qualcosa di unico da offrire attraverso la loro stessa presenza.

Ci può fare un esempio?
Esiste un ordine di monache trappiste che nel 2005 si sono trasferite ad Aleppo, in Siria appunto, per fondare una comunità monastica basata sull’esempio dei monaci di Tibhirine. Il 29 agosto, sotto la minaccia di un imminente attacco da parte degli Stati Uniti, quelle sorelle hanno scritto una bellissima riflessione sulle sofferenze della popolazione siriana e hanno invocato la pace. «Il premio Nobel per la pace è disposto a lasciar cadere la sua dichiarazione di guerra contro di noi? A dispetto di tutta la giustizia, tutto il buon senso, tutta la pietà, tutta l’umiltà, tutta la saggezza?», si sono chieste.

Che tipo di iniziativa civile potrebbe cambiare le sorti della Siria, ammesso che ne esista una?
Lo scenario ideale consisterebbe in una coalizione di protagonisti a livello regionale, sinceramente intenzionati a risolvere conflitto siriano. Israele, Turchia, Iraq, Iran e altri paesi hanno tutti il potenziale per portare la pace attraverso uno sforzo congiunto.

La situazione attuale è delicatissima; penso che molti dei suoi pensieri e preghiere siano rivolti agli amici in pericolo…
Proprio così, e le notizie si susseguono di giorno in giorno, perciò possiamo solo stare a guardare, aspettare e sperare. Una persona che conosco e che abita in Siria mi ha confidato la sua grande preoccupazione sull’eventualità che gli Stati Uniti bombardino un arsenale chimico, provocando gravi conseguenze per la popolazione civile circostante. Questo mi ha indotto a riflettere sulla banalità del male e l’apparente normalità del peccato, come ci insegna la filosofa politica Hannah Arendt. Nel suo libro sul processo ad Adolf Eichmann, uno degli artefici della shoah nazista, la studiosa ha descritto Eichmann come caratterizzato da «incapacità di pensare». L’etimologia della parola tedesca corrispondente esprime la mancanza di autoriflessione, l’assenza di un “io”. Qualunque azione morale rende necessaria invece proprio questo tipo di capacità di pensare, tanto più in una tragedia di questa portata.