La guerra continua.

«Qui i cristiani non si vergognano di Gesù»

«Volevano uccidermi e mi sono salvato per miracolo». Padre Clemente porta aiuti a chi è rimasto nel Paese e ai profughi al confine. Vale la pena rischiare la vita così? «Sì, in loro vediamo Cristo che soffre. È Lui che ci chiede di aiutarli».
Maria Acqua Simi

Padre Clemente ha appena compiuto 75 anni. Si muove tra la Terra Santa, il Libano e la Siria. L’ultimo anno lo ha trascorso, insieme a molti suoi confratelli, portando aiuti dalla frontiera libanese ai conventi francescani stretti nella morsa della guerra siriana. Lo abbiamo raggiunto al ritorno dal suo ultimo viaggio («L’ultimo per davvero», dice) nell’entroterra di Damasco. «Ora lascio l’incarico a qualcun altro», spiega. Un po’ per l’età, un po’ perché anche in Libano c’è bisogno di aiuto, visto l’enorme flusso di profughi che valica i confini ogni giorno. Ma padre Clemente non sembra sconfortato. «Siamo messi qui per servire», dirà chiudendo l’intervista.

Quanti conventi francescani ci sono in Siria? Riuscite a comunicare tra di voi?
Ce ne sono diversi, da molti secoli: noi frati viviamo in Siria dal tempo di San Francesco. Attualmente ci sono operativi tre conventi a Damasco, altri tre ad Aleppo, altri quattro nella valle dell’Oronte vicino alla frontiera turca nel Nord Ovest della Siria, e infine un convento nella costiera a Latachiah, con una casa per campeggi estivi nella montagna presso Latachiah. È molto difficile avere dei contatti, se non recandosi direttamente sul posto o quelle rare volte in cui le linee telefoniche riprendono a funzionare. In auto riusciamo a raggiungere – con viaggi difficili e molto lunghi – i frati di Damasco e Latachia. Ma con gli amici che stanno ad Aleppo o nei villaggi dell’Oronte, è tutto molto più complicato.

So che voi portate aiuti materiali dal Libano alla Siria: cosa succede una volta entrati in territorio siriano?
Abbiamo deciso che era necessario continuare a portare aiuti alla popolazione siriana e ai profughi, quindi agiamo su due fronti. Uno interno alla Siria e uno interno al Libano. Nel primo caso, non perdiamo occasione di portare cibo, medicine, abiti o anche denaro ai nostri frati in Siria che li distribuiscono alla popolazione secondo il bisogno che c’è. Tanta gente di buon cuore ci sta inviando aiuti, noi ci preoccupiamo di farli arrivare alle famiglie. Sono dei fratelli in difficoltà e Cristo ci chiede di aiutarli. In loro noi vediamo Cristo che soffre. Gesù diceva che tutto quello che sarà fatto ai bisognosi e sofferenti, è fatto a Lui. Ecco perché rischiamo tutto per portare un po’ di sollievo a chi è rimasto laggiù o a chi è dovuto fuggire.

La guerra però incalza. Sono tanti i morti, tanti i dispersi. Anche voi ne siete stati toccati?
Sì. Ho tenuto aperto il mio ufficio in Siria fino a un mese fa. Ho visto tante cose dolorose, sono stato io stesso assalito da uomini armati che volevano uccidermi. Poi si sono accorti che ero lì solo per aiutare i deboli, non per fare politica. E mi hanno lasciato miracolosamente andare. Ma ho perso degli amici. Uno, carissimo, è padre Francois Mourad. Era un prete siro-cattolico che lavorava con noi frati nei villaggi dell’Oronte. È stato ucciso proprio davanti a un convento a Ghassanieh, che è stato poi occupato dai ribelli armati. I frati sono dovuti fuggire e a nessun cristiano è stato più permesso di vivere in quel villaggio.

Una situazione durissima. Qui in Europa sono arrivate anche notizie di conversioni forzate. Può confermarlo?
So che la zona dove è avvenuto il martirio di padre Mourad è stata dichiarata emirato musulmano, per cui ogni cristiano che si trovava lì ha dovuto o convertirsi o lasciare la sua casa. Ma sono pochi i casi di abiura. Chi viene ucciso, viene ucciso in odio alla fede.

Del resto la situazione dei cristiani in Siria è complicata: sono una minoranza, la guerra sta distruggendo ogni cosa. Non c’è la tentazione di schierarsi da una parte o dall’altra?
I cristiani sono una minoranza in Siria come in quasi tutti i paesi arabi. Con l’eccezione forse del Libano. Ma prima della guerra non vivevano male in terra siriana, anzi. Erano fieri di abitare in uno Stato tutto sommato laico, dove era assicurata la libertà di culto a tutte le religioni. Non dimentichiamo che la Siria è il paese che ha visto fiorire il cristianesimo prima di molte altre Nazioni che oggi si dicono cristiane. I cristiani in Siria certo, hanno paura oggi. Ma non si vergognano della loro fede, non si vergognano di Gesù. Sono fieri, anche se questo comporta talvolta essere uccisi, sgozzati come un gallo o un vitello perché si rifiutano di rinnegare Dio. E voglio aggiungere una cosa: si badi bene che anche i musulmani moderati vengono perseguitati dagli estremisti islamici. Proprio come accade ai cristiani. Talvolta peggio.

Lei è spesso anche in Libano. Il Paese sta affrontando un flusso di arrivi senza precedenti dalle frontiere siriane. Sappiamo che il Governo è in difficoltà, visto che da decenni aiuta anche i campi profughi palestinesi o l’emergenza dei profughi iracheni. Cosa accade ora?
È una situazione complessa. Stiamo aiutando i profughi come possiamo, ma il paese è diviso. Anche perché non arrivano solo profughi, ma anche terroristi schierati con il Governo siriano o con i ribelli. C’è stato un innalzamento di rapine, gesti violenti con ripercussioni negative sulla società libanese e questo sta creando rabbia e confusione. Noi frati ad ogni modo ci stiamo organizzando per realizzare dei corsi nelle scuole per i ragazzi siriani, perché arrivando in Libano non possono adeguarsi al programma scolastico libanese. Così cerchiamo di aiutarli con corsi intensivi perché non perdano la scuola. Molte associazioni cattoliche, la Caritas o le parrocchie sono in prima linea per dare una mano su tutti i fronti: a trovare un lavoro, vestiti, una casa, qualche somma di denaro per ricominciare una vita. Sappiamo bene che è solo tappare un’emergenza, ma questo è quello che abbiamo di fronte e a questo dobbiamo rispondere.