Gian Arturo Ferrari.

Gian Arturo Ferrari: «Vittime della pretesa universalista»

Già direttore della divisione libri Mondadori, convinto europeista, la firma del "Corriere della Sera" commenta il documento di CL per le elezioni del 25 maggio (da "Tracce", maggio 2014)
Luca Fiore

Da direttore generale della divisione libri Mondadori, per diversi anni è stato l’uomo più potente dell’editoria italiana. Firma del Corriere della Sera, Gian Arturo Ferrari è un uomo colto, amante dell’arte, formatosi in quella fucina dell’élite intellettuale che fu il Liceo Berchet di don Giussani, di cui fu allievo. Vive in uno dei palazzi più belli di Milano, l’unico, nel capoluogo lombardo, progettato dall’architetto razionalista Giuseppe Terragni. Alle pareti del suo salotto, opere di fotografi famosi come Mimmo Jodice e Thomas Ruff. È un convinto europeista, che vede all’orizzonte un ineluttabile declino della cultura europea.

Che impressione ha avuto del volantino di CL sull’Europa?
È un documento ben fatto, ma non penso che colga il nodo culturale vero. L’Europa ha elaborato una sua visione del mondo, il cui assioma fondamentale è quello di essere una cultura universale, valida per tutta l’umanità. La questione è che oggi ci troviamo a confrontarci con culture che non pretendono in nessun modo di essere universali, anzi. Dicono: la pretesa universale degli europei è egemonica, un’eredità dal colonialismo. Noi diciamo: «Siamo tutti uguali», loro dicono: «No, per niente». Oggi abbiamo difficoltà a elaborare una visione europea, perché la nostra stessa cultura è, in qualche modo, antieuropea.

Eppure il relativismo nasce dal pensiero liberale. La rinuncia all’universalità non è un prodotto europeo?
No, con questo non si spiega quel che sta accadendo. La questione è la pretesa universalista. La cultura europea dice: tutti hanno diritto di cittadinanza, perché tutti condividono un livello comune a tutte le culture, che è il livello umano. Ma l’obiezione è: quella che voi pretendete essere una cultura comune a tutti, in realtà è solo la vostra. E siccome è solo vostra, a noi non va bene. È da qui che nasce la crisi. Gli europei non sanno più come comportarsi. Non sanno più cosa stanno a fare al mondo, letteralmente. Gli americani lo sanno, i cinesi pure, gli arabi e i russi anche. Ognuno difende i propri principi. Gli europei invece sono imbambolati, incapaci di venirne fuori. Il tentativo di riproporre il discorso sulle radici cristiane è stato un tentativo maldestro.

Nel modo o nel merito?
Nel modo. Improvvisato, senza pensare alle reazioni che avrebbe suscitato.

Per lei cosa vuol dire essere europeo?
Potrei intrattenerla molto a lungo, ma la cosa non interesserebbe a nessuno.

Questo smarrimento lo trova anche in sé?
Sul piano personale? No, io sono un discepolo di Aristotele che era un uomo curioso di tutto, quindi essendo curioso di tutto mi interessa qualsiasi cosa. Mi pongo di più il problema della curiositas che non quello della regolamentazione. La verità è che io penso che noi europei dovremmo avere una posizione più assertiva. Cioè dire: sì, la nostra cultura è la migliore. Perché lo è. Io di questo sono convinto. Poi abbiamo tutti i nostri peccati, le nostre colpe, abbiamo massacrato il resto del mondo per secoli, abbiamo fatto... Cioè: è la nostra storia che è andata così. Ma se andiamo a vedere, noi siamo più tolleranti, siamo più civili, abbiamo più rispetto per la persona umana.

Però la crisi è anche interna. Ad esempio, l’aporia che si è creata nel rapporto tra le libertà e la tolleranza...
Le aporie ci sono sempre. Sono il sale, l’essenza della storia. La storia va avanti, non è ferma. È chiaro che ci sono sempre contraddizioni e ogni tema è una cosa da affrontare, da vedere nel suo insieme. La questione è questa specie di attonita timidezza degli europei rispetto ad altre culture e civiltà che sono molto più disinvolte e anche aggressive. Non sto parlando di aggressività fisica, del terrorismo, ma del modo di intendere se stessi. Da qui discende tutto il resto, anche questi sbandamenti sui temi della bioetica. Tutto dipende da questa grandissima insicurezza. È un’incertezza generata anche dal fatto che l’Europa non ha idea di che funzione concreta abbia nel mondo.

Che cosa vuol dire?
Gli americani fanno la tecnologia. L’hardware e il software è in mano loro. L’intero mondo di internet è sotto il controllo degli Stati Uniti. I cinesi hanno la manifattura a basso costo. La fanno su grandissima scala e hanno un enorme mercato interno. I Paesi islamici hanno una grande ricchezza e quindi fanno quello che fanno anche i russi: vendono tutto quello che hanno. Oro, uranio, diamanti, sangue, donne, bambini, tutto quello che c’è. Gli africani non hanno mai contato niente. E poi ci sono gli europei, agli ordini di questa Merkel, che non sanno da che parte mettersi. Non è una situazione molto allegra.

È possibile un nuovo inizio?
Certo che è possibile, basta che qualcuno lo faccia. Chi lo fa il nuovo inizio? Se qualcuno ha la forza di proporlo...

Dal punto di vista politico?
No, dal punto di vista culturale. La politica la considero al pari dell’amministrazione di un grande condominio: non le attribuisco proprietà salvifiche. Mi interessa la cultura profonda.

Come se lo immagina il nuovo inizio allora?
Qualcuno che cominci ad affrontare questi problemi, ad ammettere che esistano, a pensare cosa fare. Io non sono un profeta, non ho una mia dottrina. Ma l’alternativa è il declino, l’insignificanza. D’atra parte, anche nella Chiesa, il passaggio di Pontificato si può leggere in quest’ottica.

Perché?
La cultura di papa Francesco è completamente diversa da quella di Ratzinger e di Wojtyla. Parla di altre cose. Non solo come ha detto lui, perché viene dalla fine del mondo. Certo, è il Papa della Chiesa cattolica, i contenuti di fondo non cambiano. Ma il timbro è inconfondibilmente diverso. E non è europeo.

Quali sono le ragioni di questo declino?
L’Europa ha una forza incredibile, è la parte del mondo che vive meglio, più colta. Ma se va negli Stati Uniti troverà più forza, più vitalità. L’Europa a confronto è davvero smunta. Anche le grandi correnti culturali europee profonde si sono inaridite. Dov’è la cultura francese degli anni Sessanta e Settanta? Scomparsa. Oppure pensi alla stagione dell’esistenzialismo, o a quella dello strutturalismo. Oggi cosa c’è? Lo stesso vale per i tedeschi. Oggi l’Europa è un Paese... Sì, perché io la penso come un Paese. L’Europa dovrebbe essere unita, unitissima. Rimanendo italiani e lussemburghesi, ma... Certo, c’è il grosso ostacolo delle lingue. Ma tra europei, come dice il vostro volantino, abbiamo smesso di ammazzarci, ed è un fatto positivo, ma siamo ormai rimbecilliti.

È preferibile la violenza?
Certo che no. Tutte le medaglie hanno il loro rovescio. Lei ha presente il film Il terzo uomo, dove Orson Welles dice quella battuta sul Rinascimento che tra guerre e intrighi di corte ha prodotto Raffaello, mentre la Svizzera in cinquecento anni di pace ha prodotto solo gli orologi a cucù? Che poi non è neanche vero che hanno inventato solo quelli... Ma tornando al Novecento: la storia del secolo scorso è impressionante: è divisa a metà come da una lama di coltello. Nei primi cinquant’anni sono avvenute cose straordinarie dal punto di vista culturale, artistico, scientifico. Nel frattempo ci si è massacrati in modo mai visto. Poi abbiamo smesso di farlo. Ma qual è stato il prodotto dalla seconda metà del secolo?

Sarà il vizio di pensare che ciò che è lontano è migliore di ciò che è vicino, nello spazio e nel tempo...
Può darsi, in parte forse sì, ma lì c’erano Proust, Kafka, Joyce… Mi dica cosa c’è stato nella seconda metà del Novecento. Certo, non era un bel mondo, era un mondo di brutalità, di violenza. Però gli uomini erano più...

Più?
Più allarmati. Oggi siamo gente preoccupata di schifezze, miserie. Di quanto si potrà guadagnare di più. Lei che è un cattolico e un cattolico di CL, si accorgerà che la scristianizzazione è impressionante. Io sono battezzato, ma non sono praticante. Però guardo queste cose con molto interesse e ne sono impressionato. C’è anche una concezione del mondo religioso che di religioso non ha nulla.

Ad esempio?
Mi è capitato di andare alla prima Comunione della nipote di mia moglie. Il modello era uno spettacolo televisivo trasferito in chiesa. Sconfortante. La Grazia segue dei percorsi che solo Lei conosce. Continuerà a operare e ovviamente opera, speriamo almeno, anche nel 2014, ma di certo non in quel modo che ho visto. Ho impressione che il mondo sia già cambiato in maniera radicale. Non attraverso la violenza, ma in modo molto forte.

È il cambiamento antropologico di cui parlava Pasolini?
Lui era terrorizzato dall’avvento della società industriale. In larga misura aveva ragione. Ora è quella società industriale che sta morendo. Siamo molto più avanti.

Nella prima metà del secolo ci sono state tragedie, ma a livello personale ciascuno ha le sue. Magari non ci si spara più, ma c’è un livello di violenza che...
No, il livello di violenza è diminuito moltissimo. Non solo quella tra gli Stati, ma anche nei rapporti interpersonali. Era un mondo molto più duro, più brutale. A partire dai rapporti familiari.

C’è qualcosa che aiuta a far riemergere quell’umanità che ci fa apprezzare Proust, Eliot, Picasso...
Non lo so. Ognuno di noi ha un ambito di esperienza limitato a che ha avuto in sorte. Siamo dentro una mano di carte che non abbiamo dato noi e in quelle dobbiamo arrangiarci. Io non me la sento di dire se c’è o non c’è una via di uscita. Io sento con molto allarme la condizione in cui siamo. Ma nelle persone che frequento, intellettuali e uomini di cultura, non vedo la stessa urgenza.

Chi sente vicino in questa percezione della drammaticità?
Se le devo dire la verità, nessuno. Non ho un posto, non c’è un qualcosa in cui dica: ecco lì effettivamente capiscono quello che sta succedendo. Mi sembra che tutto il dibattito culturale sia di una grande sordità. Un dibattito molto disciplinare legato ad ambiti particolari, ma mi sembra che non si vada a toccare le cose nell’insieme.