Antonio Polito.

Polito: «O siamo noi l'Europa oppure non siamo»

La debolezza dei partiti, il vuoto di idee, le riforme mai nate. Continua il dibattito iniziato su "Tracce" di novembre. Per l'editorialista del "Corriere della Sera" occorre pensare oltre i propri confini. Ma non perché «ce lo chiede Bruxelles»
Ubaldo Casotto

«La possibilità per la politica italiana di tornare a essere politica e non maneggio più o meno morale di denaro pubblico ha un nome: Europa».
Antonio Polito ci dà appuntamento in piazza San Lorenzo in Lucina a Roma, dietro Montecitorio, sotto quello che fu lo storico ufficio di Giulio Andreotti, e alla domanda su da dove ripartire per ridare alla politica la dignità di una funzione essenziale per la vita di un Paese, l’editorialista del Corriere della Sera non ha dubbi: «A parte i rimedi tecnici contingenti che pur contano, la chiave della questione è nel discorso che Giorgio Napolitano ha fatto a Venezia il 6 settembre scorso e che è stato poco valutato dalla stampa italiana. Lì il presidente della Repubblica ha parlato della "europeizzazione" della politica e dei partiti italiani».

Siamo sempre al «ce lo chiede l’Europa»?
No, anzi, è il contrario, il compito è portare democrazia in Europa. Il provincialismo della politica italiana è stata una delle cause del crollo della Seconda Repubblica, schierarsi sull’Europa era una funzione derivata della lotta interna e avveniva all’interno di una grande anomalia.

Quale?
Se quella della Prima Repubblica era un’opposizione che si chiamava Partito comunista e non poteva andare al governo, una situazione che ha portato i partiti di governo alla corruzione e alla dipendenza da condizionamenti esterni, che sono tipiche di chi non rischia la sfida dell’alternativa. L’anomalia della Seconda è nel fatto che tutti i partiti non hanno a che fare con la struttura della politica europea, prima della nascita del Pd addirittura nessuno si chiamava “partito”.

In che senso l’Europa ci può guarire da questa anomalia?
Oggi devi ricondurre la speranza e la lotta politica italiana nell’alveo della lotta politica europea per due ragioni: la prima perché è li la sede della democrazia del futuro. Noi abbiamo un governo tecnico, un’eccezionale rottura della pratica democratica e la preoccupazione per il fatto che si tratta di un governo non eletto, anche se necessario, non è sbagliata. Questo nostro problema di democrazia si risolve in Europa: dobbiamo portare democrazia in Europa.

Perché?
Il governatore della Bce Mario Draghi, e questo è il secondo motivo per cui dobbiamo concepirci in un’ottica europea, è andato a rendere conto della sua politica monetaria a tre commissioni del Parlamento tedesco. Alla tecnocrazia che governava l’Europa si sta sostituendo una democrazia non europea ma tedesca e nordica. Era inevitabile perché quando usi i soldi della gente devi rispondere alla gente. La democrazia è taxation with representation, nel momento in cui si è rotta l’ipotesi tecnocratica dell’euro si è dovuti tornare dalle opinioni pubbliche, ma si è andati solo da quelle che hanno oggi i soldi e il coltello dalla parte del manico. Questa situazione per quanto può reggere? In Italia oggi facciamo quello che vuole la Germania, non perché siamo schiavi di Berlino, ma perché se non lo facciamo non possiamo andare sui mercati. Il problema è sostituire a questa Europa che dipende dal voto dei tedeschi, dall’elettorato della Merkel, una democrazia europea.

I partiti devono dunque ripensarsi in questa chiave?
Dobbiamo avere partiti che partecipano della lotta politica europea e quelli della Seconda repubblica le sono stato estranei. Berlusconi non era di casa nel Ppe, ce l’ha voluto Kohl per evidenti motivi di maggioranza a Strasburgo. Lo stesso vale per il Pd, che è nato sull’ipotesi di non aderire alla socialdemocrazia europea (operazione che poi non è riuscita).

Ma in Italia non ci sono solo due partiti.
La giungla di nani che si è costruita intorno a un leader sostanzialmente per lucrare un po’ di soldi va disboscata, anche perché il problema si è riprodotto ai livelli più bassi. In Lazio è nata una lista Polverini che alle elezioni ha preso 6 milioni di euro. Il sistema fa nascere e tiene in vita sigle che non esisterebbero senza i soldi. Il nesso o la frattura tra l’ispirazione politica e la corruzione è strutturale: se sei una forza politica senza ideali non puoi vivere senza rubare, vivi per i soldi. È quindi cruciale ridare un’asse ideale alla politica italiana, ripeto: l’Europa.

Con queste istituzioni?
Una democrazia europea non può esistere senza il voto dei cittadini. Le tensioni fra Paesi sono tensioni fra cittadini; se i tedeschi pagano per ripianare i debiti greci, vogliono essere coinvolti nella decisione. E reciprocamente. Questo conflitto è irresolubile senza una democrazia europea: elezione non del Parlamento ma del governo europeo, del presidente degli Stati Uniti d’Europa, o dell’assemblea che gli vota la fiducia.

Oggi, in effetti non si sa quale sia l’esecutivo dell’Unione, la Commissione o il Consiglio, cioè i governi?
Qualcuno ha detto giustamente che l’Ue non risponde ai requisiti di democrazia che lei stessa chiede ai Paesi che chiedono di entrare nell’Unione.

Non è però velleitario oggi parlare di presidente degli Stati Uniti d’Europa?
Le democrazie esistono se c’è la fiducia: i partecipanti a una comunità si fidano abbastanza tra loro da concedere potere a un altro sapendo che dopo un certo numero di anni questo potrà passare di mano. Storicamente questa fiducia avviene nello Stato nazione dove è nata la democrazia. Quindi, prima della tecnica istituzionale deve esserci un demos europeo. Che si forma in tanti modi: ad esempio con la possibilità di viaggiare (i nostri figli potrebbero un giorno votare per un candidato francese o tedesco e non italiano, io oggi farei fatica); attraverso una lingua comune; attraverso la costruzione di un’opinione pubblica in cui l’arena del dibattito non è più nazionale. Per questo è decisivo che ci siano dei partiti europei.

Insisto, non è un’utopia?
Di fatto già succede da due anni con la crisi del debito. Tutta Europa discute della politica interna greca, noi delle conseguenze del voto tedesco. In Germania si discute tranquillamente della politica italiana, e Berlusconi è caduto un anno fa, perché i maggiori governi europei temevano che l’instabilità italiana recasse danno anche a loro, con la famosa risata di Merkel e Sarkozy. Questo è coscienza di pochi, ma spetta proprio ai partiti, se vogliono far politica, approfondire con i cittadini questa coscienza e questa visione.

Intanto nel Vecchio Continente assistiamo alla rinascita di particolarismi e xenofobie.
I particolarismi risorgono perché è in crisi questa costruzione. Quando l’Europa è una prospettiva, Irlanda e Gran Bretagna smettono di farsi la guerra in Ulster perché stanno tutte due a Bruxelles. Se l’Europa non c’è i catalani non vedono perché stare con Madrid. E la Scozia chiede il referendum per l’indipendenza… La prospettiva di un federalismo europeo rende inutili questi tentativi di farsi uno Stato nazionale, con il ritorno alle nazioni ognuno tenta di difendersi facendosi il suo Stato.

Torniamo alla domanda iniziale: da dove può ripartire la politica?
Quanto ci siamo detti sinora è l’approdo finale della risposta. Se la politica si è ridotta a mestiere di quattro strascinafaccende che ormai maneggiano solo soldi, se a Roma non si decide più niente perché c’è un governo tecnico che tratta con Bruxelles e Berlino sul da farsi, la politica ha perso la sua funzionalità. Ma ha le casse piene, e chi ha soldi e nulla da fare… che fa? Ha strutture, apparati da mantenere, sedi in tutt’Italia…

Può usare diversamente i soldi di cui dispone.
I soldi vanno dati soprattutto ai think tank, alle fondazioni che elaborano politica, che studiano il Paese e prospettano policy, questo è il vero finanziamento pubblico. Dirò di più, anche al finanziamento pubblico bisogna applicare il concetto di sussidiarietà, i soldi devono arrivare sul territorio, non solo al centro, che poi invece di far vivere le sezioni li investe in diamanti. Bisogna affamare la bestia, toglierle risorse e condizionarle a ricerche e produzione di politiche e non al mantenimento degli apparati. Dovrebbe valere per partiti quello che vale per le associazioni non profit internazionali: dei soldi raccolti solo una parte fissata con una chiara percentuale può essere usata per la struttura dell’organizzazione, altrimenti la beneficenza finisce agli impiegati.

Ha parlato di demos europeo, ma non siamo riusciti a fare una Costituzione che riconoscesse le nostre radici comuni.
Che invece ci sono eccome: cristianesimo, giudaismo e pensiero greco. Ma non infiliamoci in quella polemica, il collante europeo è così reale che gli altri lo vedono subito. Nella campagna elettorale americana stanno dibattendo su: vuoi diventare come l’Europa o no? Il welfare è parte essenziale della nostra identità, il dibattito su uguaglianza o disuguaglianza, su accettare un grado di disuguaglianza ai fini del miglioramento del sistema e di un nostro arricchimento oppure no anche a costo di un impoverimento è una grande discussione pubblica. Il passaggio dal welfare state alla welfare society è una discriminante della politica che si ponga in ottica europea. La tensione tra Stati sul debito ha qui la sua radice: per mantenere i livelli di prosperità raggiunti serve più statalismo o più individuo, più persona, più comunità?

Può esserci rilancio della politica senza riforme istituzionali?
No, e lo sanno tutti. Ma ho pudore a dirlo perché è vent’anni che lo diciamo. I partiti le rinviano per convenienza, l’attuale sistema dei cacicchi è più garantito dal caos.

Che conviene anche ai cosiddetti poteri forti…
Certo, se l’esecutivo è debole, e i partiti di conseguenza, chi sta fuori dalla politica si sente più garantito perché così sa di poterli controllare: ogni sei mesi devono venire da me perché i giornali sono importanti e le tv pure…

Non ci resta che l’Europa? A molti sembra un commissario controllore senza popolo.
Bisogna togliere all’Unione europea questa funzione estranea o di madre benigna o di padre crudele, la retorica del «ce lo chiede l’Europa» è una fesseria. Siamo noi l’Europa. Oppure non siamo.