Antonio Polito.

Disarmati dall'umano

Antonio Polito legge la crisi di oggi a partire dal libro di Carrón: l'educazione, il terrorismo, i "nuovi diritti", l'accoglienza... Ecco la versione integrale dell'intervista che trovate sulla rivista di ottobre
Davide Perillo

Nella Bellezza disarmata c’è finito pure lui. «E mi ha fatto piacere. Non pensavo che don Carrón avrebbe usato anche quel testo». Invece è lì: capitolo 11, “Il punto infiammato”. È uno dei diciassette interventi che compongono «il primo libro italiano della guida di CL», appena uscito per Rizzoli: incontri, lezioni e articoli che riprendono il filo di un lavoro lungo dieci anni, da quando il sacerdote spagnolo è succeduto a don Giussani. E spaziano su tutte le grandi questioni con cui stiamo facendo i conti, oggi: la crisi e l’Europa, i “nuovi diritti” e la sfida del terrorismo, l’accoglienza e l’educazione.
Come in quel capitolo, appunto. Che Antonio Polito, 59 anni, vicedirettore del Corriere della Sera, conosceva già, perché nasce dalla presentazione di un suo libro (Contro i papà) a cui Julián Carrón aveva partecipato nel 2013. «Credo che l’attenzione al tema educativo sia una delle cose più importanti che CL sta regalando da tempo al dibattito pubblico italiano».

Partiamo da lì, allora: l’educazione. È un filo rosso di tutto il libro: Carrón si pone di continuo la domanda sul «come generare un soggetto» in grado di affrontare le sfide che viviamo, ed è una questione che riguarda tutti, non solo i giovani...
Esatto. Nella sua lettura di questo momento storico, mi sembra un punto cruciale. Ci troviamo di fronte a una crisi di valori che affonda le sue radici proprio in un grande fallimento educativo. Carrón lo dice chiaramente. Ed è una chiave di lettura acuta. Se scavi un po’ nei fattori della crisi, anche economica e sociale, in cui ci trasciniamo da tempo, al fondo trovi sempre una crisi di valori. A differenza di quanto si pensa di solito, i valori cambiano l’economia più di quanto l’economia cambi i valori. È un tema fondamentale per ogni discorso, non solo per il rapporto tra padri e figli.

Carrón, però, parla anche di un «crollo delle evidenze», di una debolezza di coscienza, dell’incapacità di riconoscere la realtà per quella che è. Insomma, per lui la crisi è anzitutto di conoscenza, prima ancora che etica. Lei cosa ne pensa?
Quella che stiamo vivendo è una crisi dell’umanesimo tout court. Chiede un ripensamento dei fondamentali. Dell’uomo e delle sue domande, a cui nell’ultimo secolo sono state date solo risposte molto parziali. C’è tutta una serie di sistemi di pensiero e di atteggiamenti pratici, diffusi nella nostra società, che tendono ad accantonare l’uomo. Prenda il tema della responsabilità individuale, della libertà di decidere e quindi anche di costruirsi ognuno la sua storia. In fondo, cosa è stato il Novecento? Un tentativo continuo di eliminare questa responsabilità, e quindi di ridurre la libertà.

Esempi?
La psicanalisi, lo stesso marxismo, poi la psicologia evolutiva… Riducono tutti l’umano a una serie di fattori antecedenti: storici, economici o biologici. È come se l’io fosse l’esito di una lotta tra forze oscure al di sopra di noi: le nostre scelte non contano nulla. Ecco, io credo che su questo punto il cristianesimo può dare un grande aiuto a una rinascita della società.

Perché?
Perché ha dentro di sé un umanesimo potentissimo: la certezza che non si può accantonare l’umano. Alla base di tutto c’è l’uomo e le sue domande di fondo. Carrón cita quella frase, molto bella, di Hannah Arendt: «La crisi ci costringe a tornare alle domande». È verissimo. Ed è solo così che ci rimettiamo in relazione con il nostro tempo.

Non crede che abbiamo un po’ paura di farlo? C’è timore di rischiare, di rimettere in discussione forme e schemi acquisiti. È un altro tema che nel libro torna spesso…
Guardi, prima diceva che non siamo più d’accordo sulle evidenze di fondo. Un esempio perfetto di questo è la crisi demografica. «Non essere più d’accordo» sul fatto che si fanno bambini, non riconoscerne più la positività e addirittura avere paura di generare, considerare la generazione qualcosa di non più adatto ai tempi, è la dimostrazione più evidente proprio di questa crisi di comprensione della realtà. E ha ricadute enormi sulla società, l’economia, la storia… Persino i grandi flussi migratori, per dire, dipendono in gran parte da questo, oltre che dalle guerre: se da una parte si crea un vuoto di popolazione, ne arriva altra a riempirlo. Smarrimento dell’essenziale e paure vanno insieme.

Forse anche il cristianesimo, a volte, sconta questa paura: dà per scontato l’essenziale e si riduce alla difesa di certi valori come fossero battaglie di trincea, non un’esperienza che sfida la realtà.
Anche su questo Carrón dice parole chiare. C’è un filone nel cristianesimo che nel tempo si è un po’ accomodato nella posizione di una “religione di Stato”, ufficiale. Dopo Teodosio, come ricorda lui, per molti la fede è diventata quasi parte di un ordinamento statale. E si è diventati meno attenti al tema della libertà. La riscoperta della forza rivoluzionaria in cui è consistito il primo cristianesimo, questa capacità di sfidare la realtà, di puntare sulla libertà dell’uomo, anzitutto è un elemento di rottura intellettuale: la fede si fa cultura. E quindi ci interpella. Interpella l’Occidente, appunto. Penso a Benedetto XVI, alla sfida che ci ha rivolto costringendoci a pensare. E una fede che si fa cultura rimette al centro anche il tema della libertà dell’uomo. Cosa di cui c’è un gran bisogno. Non a caso, uno dei temi che mi colpiscono di più nel libro è proprio l’insistenza sulla libertà.

Perché?
Che questa perorazione così appassionata della libertà venga da un prete, incuriosisce. Viviamo in un mondo pieno di liberali, libertari, libertini… Ma nella nostra vita senza Cristo - nella quotidianità normale, laica - la libertà non è più un valore fondamentale. Anzi, anche di questa cominciamo ad avere paura.

In un capitolo si cita Kafka: «Si temono la libertà e la responsabilità e quindi si preferisce soffocare dietro le sbarre che ci si è costruiti da sé…».
È la stessa cosa che si legge, per esempio, in Sottomissione, il romanzo di Michel Houllebecq che ha fatto molto discutere. Secondo me quel libro individua un rischio reale che corre l’Occidente. L’islam offre una risposta che non ti sollecita a una scelta, a una decisione: chiede sottomissione, che è il contrario della libertà. E tutto sommato l’Occidente, davanti a questa sfida, appare stanco proprio della libertà. Stanco di dover scegliere, decidere. Il rischio di una tendenza ad accettare una società dove la libertà è meno cruciale c’è, eccome. Una proposta come quella di Carrón può aiutare a reagire pure a questo.

Anche la bellezza del titolo è disarmata proprio perché si offre alla libertà. E Carrón - con Giussani - sostiene che questa proposta può passare solo da una testimonianza, da una vita. Lei cosa trova affascinante, interessante per sé, del cristianesimo?
Guardai, le faccio un esempio. A me, appunto, preme molto l’educazione, quel complesso passaggio di valori e domande che una generazione trasmette all’altra e su cui abbiamo molte cose da rivedere. Ma se faccio un discorso su questo, chi mi ascolta in Italia oggi? Quelli che si occupano di educazione, che formano gruppi, associazioni - persino quelli che mettono su scuole indipendenti, valore enorme per l’idea che c’è dietro -, chi sono? I cattolici. Oggi se devo pensare a gente che si rimbocca le maniche, che non chiede tutto alla politica perché sa che il cambiamento vero arriva solo dal basso e non dall’esterno, io penso alla Chiesa. Ci trovo un’energia e una voglia di confrontarsi con l’umano che prima non vedevo. Ma magari è perché sono cambiate le mie domande, più che la Chiesa.

Forse è cambiata anche la Chiesa: non può più dare per scontate certe cose…
Non so. Io ho frequentato il mondo cattolico quando ero ragazzo. Diciamo che allora, e parlo dell’Italia degli anni Sessanta, il messaggio che veniva dalla Chiesa era più quietista. Non necessariamente conservatore, ma qualcosa del tipo: «Aderite a questa società, perché è un progetto valido, condivisibile». Oggi ci vedo molta più forza rivoluzionaria, più capacità di sfida, anche di contrasto rispetto alla cultura dominante. Lo ritengo un gran bene. E credo che in questo il ruolo di CL, dal Sessantotto in poi, sia stato importante. Don Giussani è stato tra i primi a segnalare questa necessità di risveglio, di contrasto ai sistemi di pensiero che tolgono centralità alla persona.

Eppure l’insistenza sull’io, il ribadire che il problema è la «generazione del soggetto» e la «personalizzazione della fede» prima della politica, da alcuni è vista come una ritirata dalla società. Lei che ne pensa?
Non sono un esperto di CL, ci mancherebbe. Ma visto da fuori, a me sembra più un ritorno alle origini. Ai fondamenti. La presenza nel mondo si può svolgere in tanti modi, come le opere. E CL ha una tradizione anche importante. Ho visitato tante scuole, per esempio. E ho visto in azione un mondo affascinante, rilevante: i servizi, le aziende non profit. Ho presente la CdO - le pagine del libro dove se ne parla sono molto interessanti. Ma nel momento delicatissimo in cui questa forma di presenza ha provocato - secondo me inevitabilmente - tensioni, perché nel tempo sono venuti fuori “i politici di CL” o “gli imprenditori di CL” e via dicendo, la risposta di Carrón è stata formidabile. Direi decisiva per salvare il cuore della presenza di CL, che è un movimento ecclesiale: per forza di cose deve partire dal soggetto. Tutto il resto è importante, è utilissimo. Voi mettete insieme le persone, le famiglie; ho sempre trovato un grande entusiasmo comunitario nel vostro mondo, esperienze molto significative, ed è bello. Ma la sfida più cruciale è quella dei fondamentali. Tornare a farsi le domande a cui sono state date risposte ridotte.

E come la si vince? Da dove ripartire?
È decisivo trovare chi riaccende quello che Carrón chiama «il punto infiammato». E quel punto appartiene al soggetto, non è figlio di considerazioni politiche o sociologiche. Noi ricostruiamo il Paese, o l’Europa, se tocchiamo tanti «punti infiammati», se in tante persone si risveglia questo concetto di umanesimo. Se si riappropriano in tanti di quella libertà che dà accesso alla verità, come dice lui.

C’è un altro punto su cui il libro insiste molto: l’altro è un bene. «Senza l’incontro con l’altro non potrebbe emergere né mantenersi vivo un io che si apra alle domande fondamentali del vivere». Vale per la vita personale come per i macroscenari della politica. Cosa cambia se si parte da lì?
Be’, ma il cristianesimo è questo! Quando si discute delle radici cristiane dell’Europa a volte si tirano fuori cose terribili: la scarsa libertà religiosa, la religione di Stato, l’indottrinamento... Invece le radici cristiane sono questo. L’apertura all’altro. La capacità di rendersi migliori attraverso la relazione con l’altro e di rendere l’altro migliore attraverso di te. Questa è la storia dell’Europa: la commistione. E anche la competizione con l’altro, sia chiaro. Quando si parla di convivenza non si dice solo «vieni a casa mia, ti do il mio salotto e siamo amici»: in qualche modo da quel momento parte pure un confronto. Culturale, sociale e anche economico. Ma questa competizione è stata anche il grande fattore di progresso dell’Occidente. Nel Cinquecento, il potere più avanzato del mondo era la Cina. Perché perde la sua supremazia? Perché lì non c’era questo movimento, questa contaminazione.

Da non cattolico, come legge queste sfide contenute nel libro alla luce di quello che sta facendo papa Francesco?
Non vorrei cadere in semplificazioni. È chiaro che siamo dentro lo stesso progetto culturale. Ma noi fin qui abbiamo parlato di Occidente e di Europa, mentre mi pare che Francesco faccia uno sforzo più globale. Si rivolge anche a popoli e persone in preda a problemi un po’ diversi dai nostri. Io ci vedo questo. Posso sbagliarmi, ma mi sembra che Benedetto XVI fosse un Papa più eurocentrico. Anche se devo dire che la capacità mostrata da Francesco, con questo armamentario culturale, di confrontarsi con la società più avanzata dell’Occidente, cioè gli Usa, è stata sorprendente. Li ha spiazzati tutti.

Anche lei?
Sì, un po’ sì. Ma è una questione più ampia. Che la Chiesa avesse così tanto da dire al cuore del mondo occidentale è una dimostrazione di modernità e di vitalità che non mi sarei aspettato. Soprattutto anni fa, di fronte a tutti i discorsi sulla crisi del messaggio cristiano. Ci vedo coraggio. Come nel volume di Carrón.

Quali sono i punti del libro che la trovano più lontano, invece?
Non saprei. Anche perché il mio sforzo, ogni volta che mi confronto con il cristianesimo, è opposto: cerco quello che mi è vicino, in cui mi riconosco, più che i punti di distanza. Ma forse il mio problema con il messaggio cristiano - e quindi anche con Carrón - è nel dialogo con Dio. Questa è una cosa che non so fare, che non conosco. E da quando sono incuriosito dal messaggio di Cristo, è un punto di contraddizione per me.

Perché?
Mi domando se sia possibile ragionare in termini culturali della fede senza fede. Se si possa constatare la potenza di un messaggio senza riconoscerne l’origine. Ecco, forse questo resta il punto più lontano. Ma in un certo senso è anche il più vicino. Perché mi interroga, fino in fondo.