Il nuotatore australiano Ian Thorpe.

Anche i campioni soffrono (e domandano)

Acclamati, quasi mitizzati. Ma autobiografie ed aneddoti ci "raccontano" il lato nascosto degli atleti. Dalla stella del nuoto che ha parlato di suicidio a Gigi Buffon, fino ad Andre Agassi: uomini «alle prese, come tutti noi, con il senso della vita»
Roberto Perrone

Uno dei decani del giornalismo sportivo italiano, Gianpaolo Ormezzano, ha sempre sostenuto, senza dubbi: «Lo sport fa male». Non si riferiva solo alla corsetta al mattino nel parco o alle vasche in piscina dell’impiegato alla ricerca della forma perduta o al tapis roulant della casalinga più o meno disperata o allo squash del manager con poco tempo per altro. Parlava dello sport ad alto livello, di quello professionistico che non è tale solo per una questione di danaro, cioè non riguarda solo chi guadagna cifre enormi come calciatori, tennisti, piloti di F1, ma è una professione perché assorbe ogni momento dell’esistenza e può diventare il “lavoro” più spersonalizzante che c’è, sia ben remunerato sia che regali solo la gloria, quando la regala. Lo sport toglie fiato all’io prima e dopo, dipende dalla parte da cui lo si guarda, cioè se si è ancora in attività o alla fine di una carriera. Ma lo sport fa anche male fisico.
Negli anni novanta, ai tempi del Grande Parma dei Tanzi pre-disastro, incontrai un propugnatore delle idee di Ormezzano: Silvio Smersy. Ex attaccante girovago, cresciuto nelle giovanili dell’Inter, a carriera finita si stabilì a Parma. Meraviglioso affabulatore, miniera di aneddoti e racconti, pittore di bellissimi clown, frequentatore dello star system, dove faceva bisbocce con Franco Nero, Silvio aveva inventato una dieta infallibile: d’estate si chiudeva dentro l’auto per dimagrire. «Con il caldo e i finestrini chiusi è come una sauna». Silvio diceva anche che il pallone, a colpirlo di testa, faceva diventare cretini. Bene non fa di certo. «Gli attaccanti, tra i giocatori, sono i più scemi», concludeva.
Al di là di questi aneddoti, quello che fa più male dello sport è lo stravolgimento dell’esistenza. Noi mitizzammo come eroi greci i campioni che amiamo, ma anche loro sono fragili, anche loro soffrono, anche loro hanno un tallone che è rimasto fuori dal fluido del successo e della sicurezza. Questo tallone è la solitudine, frutto della spersonalizzazione.

Lo sport, tra i settori della moderna esistenza, è quello dove la giovinezza se ne va in rinunce: le serate con gli amici, vita “normale”, l’alimentazione libera e selvaggia, e in lontananze come nel tennis dove si comincia a girare il mondo da soli con il coach a dodici anni. Per nascondere spesso il senso di vertigine che afferra i protagonisti, questi sono costretti a indossare una maschera, a interpretare un copione già scritto. L’ultimo a raccontare la sua storia di vittima dello sport ad alto livello è stato Ian Thorpe, il nuotatore australiano, otto medaglie olimpiche, di cui cinque d’oro, che, praticamente, aveva smesso dopo l’Olimpiade di Atene nel 2004 e che era ritornato nella primavera del 2011 con l’intenzione di qualificarsi per i Giochi di Londra. Thorpe, dopo Atene, aveva deciso di prendersi un anno sabbatico. Era saturo di nuoto, di piscine, di allenamenti, ma nessuno ha capito che cosa c’era dietro, veramente, fino a quando, un mese fa, non è uscita la sua autobiografia. «Guardandomi indietro, ho anche pensato a luoghi o a modi per uccidermi ma poi ho sempre rinunciato, rendendomi conto di quanto sarebbe stato ridicolo. Potevo suicidarmi? Ci sono stati giorni della mia vita che mi fanno ancora tremare al solo pensiero. Mi vengono i brividi». I brividi, però, vengono a noi, confrontare queste frasi con quelle che Gigi Buffon ha scritto nella sua autobiografia: «Ci sono momenti in cui si ha nostalgia della normalità, in cui la si cerca come un fiore prezioso. In cui tutto ciò che avevi sembra venir meno, risucchiato all’improvviso in un buco nero dell’anima. Ci sono momenti in cui certe frasi che hai sempre considerato con fastidio o con un sorriso di sufficienza diventano vere. Dolorosamente vere. E non riesci a liberartene».
Non è odio per lo sport, ma incapacità di viverlo pienamente, cioè a vivere pienamente l’esistenza. Eppure Buffon, in quel periodo, tra il 2003 e il 2004, ha continuato a giocare, a sorridere alle telecamere, a fare interviste, come se quello che lo divorava dentro non esistesse. È lo stesso grido di Andre Agassi in Open, il bellissimo libro che ha scritto tre anni fa e che è tornato prepotentemente in classifica di recente. Come nel caso di Thorpe e Buffon, mostra il malessere e soprattutto la fragilità di chi è costretto dal ruolo ad essere “il campione” eppure, malgrado i soldi, le macchine, le donne, le suite presidenziali, non trova il significato in quello che fa e si trova nudo e impotente. Tanto da scrivere, come ha fatto Agassi: «Io odiavo il tennis». Agassi recitava a tal punto il ruolo del tennista rock che nel libro rivela che per anni ha portato una parrucca per nascondere la calvizie vincente.

Lo sport non dà quello che vorresti ma può succedere che non te ne accorgi mentre sei immerso del saliscendi degli avvenimenti. Può succedere che la rivelazione su questa latitanza dell’essere arrivi quando tutto finisce, quando si appendono le scarpette al chiodo. È successo a due campioni molto seri, tutt’altro che banali, due calciatori per cui non è esagerato usare il termine “colti”. Eppure. Eppure Agostino Di Bartolomei, come raccontano Giovanni Bianconi e Andrea Salerno nel libro del 2010 L'ultima partita, il 30 maggio del 1994 si è sparato un colpo di pistola sul terrazzo della sua villa al mare, a San Marco di Castellabate, nel Cilento e Gianluca Pessotto, la mattina del 27 giugno 2006 si è buttato da un abbaino della sede della Juventus a Torino. Intrecciato alle mani un rosario. Forse è stato questo a salvarlo, insieme all’auto su cui è caduto (di Roberto Bettega). Nel libro La partita più importante (con Franzelli e Scarnati) Pessotto ha scritto: «È sparita l’angoscia che mi mangiava e m’impediva persino di respirare. È scomparsa la paura del futuro e della morte. Mi sento liberato da un peso immane: è stato un viaggio nel paese del dolore».
Non tanto il salto e la lunga degenza in ospedale. Piuttosto quello che era avvenuto prima, quando tutto era apparso senza prospettive, quando la vita aveva perso di attrattiva, per qualsiasi ragione. Dalla fine della carriera di calciatore a un problema con la moglie. Tutte queste vicende, e chissà quante altre stanno sottotraccia nascoste per vergogna, testimoniano che anche il mondo dello sport e del calcio in particolare, è un mondo popolato da esseri umani alle prese, come tutti noi, con le domande sul senso della vita. Domande a cui non si può sfuggire. Con il senso religioso, insomma.