PIÙ FORTE DELLA CRISI
Se il rischio di perdere il posto diventa un'avventura per sé

La Motorola chiude il suo centro ricerche. E cinque amici si ritrovano di colpo senza stipendio. La reazione? Sorprendente, anche per loro. Perché si sono scoperti ancora più certi di quello che vivono.
Adriano Moraglio

Al vederli così amici e aperti al mondo (cioè all’ambiente e ai colleghi), non viene da pensare che stanno rischiando il posto di lavoro. Loro, e altre 350 persone, in gran parte ingegneri e fisici. E tutti impiegati in Motorola, la multinazionale dei telefonini con sede (anche) a Torino. L’azienda ha annunciato: si chiude. O, al limite, si vende (ci sono trattative in corso). Loro si ritrovano ad essere la punta di iceberg di una situazione drammatica, che picchia duro ovunque, ma che nel capoluogo subalpino, terra di Fiat e cassa integrazione, si sente più che altrove. Eppure Cristina, Michele, Roberto, Gabriele e Corrado appaiono combattivi, per nulla abbattuti. E persino lieti: consapevoli di aver scoperto, in questo pesante imprevisto della loro vita, qualcosa di più della realtà.
Fanno cose che non avrebbero mai pensato di fare. Hanno appeso alla bacheca dell’azienda un volantino con giudizi inusuali e hanno invitato i colleghi a una messa. Una messa per “salvare” i posti di lavoro? Non proprio. Nel volantino parlano di desiderio, speranza, realismo e destino. Per esempio, il desiderio: «La perdita improvvisa del lavoro - hanno scritto - ci scuote dalla tranquillità: guardandoci indietro, anche di poco, non ci sembrano effimere le nostre sicurezze? Ma se ci abbandoniamo alla sfiducia e alla rabbia, manchiamo la possibilità di capire veramente ciò di cui abbiamo bisogno. Possiamo avvertire che il nostro cuore, dietro al bisogno del lavoro, dei soldi, della famiglia, della salute, domanda niente meno che la felicità. Nei rapporti veri, nelle amicizie vere sperimentiamo un inizio di risposta». E poi, destino: «Forse oggi il "nostro" progetto non si può realizzare. Ma se prendiamo seriamente quello che c'è alla radice dei nostri bisogni, potremo cogliere risorse e spunti andando al di là della pretesa di ciò che pensiamo ci sarebbe dovuto. Nessuno di noi si è fatto da solo, siamo tutti figli: con un'intelligenza nuova potremo aderire al progetto buono di un Altro che ci ha fatti con questo cuore inquieto e destinati alla felicità secondo il "Suo" progetto».
Che cosa è accaduto? La radice è in quello che raccontano loro stessi in una lettera scritta a don Julián Carrón, la guida di Cl. «Da alcuni anni ci troviamo ogni settimana a fare la Scuola di comunità in pausa pranzo, ospiti delle suorine (le Suore di Carità dell’Assunzione, ndr). Per noi è evidente, con tutti i nostri limiti, che attraverso questa compagnia la presenza di Gesù è più concreta nelle ore di lavoro».
Ma ecco l’imprevisto: a fine ottobre l’azienda annuncia gravi perdite finanziarie e la necessità di tagliare le spese. Qualcuno sente odore di bruciato. E non si sbaglia: «Il giorno dopo – raccontano ancora i cinque amici - viene in visita un manager americano e ci comunica la notizia shock della chiusura. Entro gennaio, tutti a casa». In azienda fervono da subito le discussioni: tra i colleghi il morale è basso. E mentre i vertici dell’azienda e il sindaco della città sabauda, Sergio Chiamparino, si rimpallano accuse a distanza, nella sede Motorola di via Cardinal Massaia, zona Nord della città, serpeggia la delusione. Lasciarsi prendere dalla disperazione è una tentazione di molti.
Però, raccontano, capita «che Roberto faccia quattro chiacchiere con la nostra collega Cristina. Si parla di come questo evento abbia influito sul nostro morale e sulla nostra autostima; ma poi dalle proprie esperienze cristiane e dalle reciproche storie personali emergono motivi di speranza. Il giorno che riusciamo a trovarci tutti insieme decidiamo di fare la Scuola di comunità. Roberto invita Cristina per la prima volta, dopo anni che la conoscevamo». Il capitolo a cui eravamo arrivati era “Seguire uno che ti sta davanti” in cui si diceva: «Normalmente nella vita, per tutta la gente, è serio il problema dei soldi, è serio il problema dei figli: per il mondo, tutto è serio eccetto che la vita. La vita implica tutto questo, ma con uno scopo di tutto, con un significato...». «Cristina è colpita, e ci chiede se quel capitolo lo abbiamo scelto apposta per il momento: "Ma una cosa del genere oggi non te la dice proprio nessuno". Era evidente la provocazione della Scuola. Da quelle parole per noi è stato chiaro che il dramma della perdita del lavoro non può sotterrare la nostra umanità, che noi siamo proprio definiti da quel desiderio di significato che don Giussani ci indica. Questo ci sta dando una speranza, e ci aiuta anche a muoverci con intelligenza, contattando amici e realtà che ci possano aiutare a orientarci nel mercato del lavoro. Ci ha anche spinto a condividere questa speranza con i nostri colleghi».
Alla messa, tenutasi nella chiesa di Madonna di Campagna in pieno “terremoto”, ci sono almeno quaranta colleghi. Il gesto è curato: le suorine, che si sono prese ancora più a cuore la storia dei loro amici ingegneri, si occupano dei canti, e, con il parroco, padre Michele, celebra don Roberto, un amico dei cinque, che nell’omelia parla del lavoro e a questo tema ha orientato tutta la liturgia. «Mi sono sentito abbracciato - dice l’altro Roberto, l’ingegnere -, mi ha colpito moltissimo vedere alla messa tanti amici, che pur non sono nostri colleghi. Erano lì per noi: Andrea aveva cambiato il turno di lavoro; Stefania, che è incinta, ha fatto la fatica di esserci». «Un collega, arrivato senza che noi lo avessimo invitato direttamente - racconta Corrado -, ci ha detto che attorno alla Motorola ci sono tante iniziative, ma forse l’unica che serve a qualcosa è stata la messa».
Lo stesso volantino è stato un’occasione di incontro: «Quando l’abbiamo distribuito qualcuno ha commentato ironicamente: e beh… non sappiamo a che santo affidarci, allora affidiamoci alla fede! Qualcun altro non l’ha voluto prendere: “No, grazie, sono ateo”. Ma non posso dimenticare un collega, di estrema sinistra, che ci ha ringraziato per il volantino: “È proprio bello, perché il valore dell’amicizia è importantissimo”. Qualche giorno fa una receptionist coreana, impressionata da quei giudizi, ci ha chiesto di partecipare alla Scuola di comunità. Ha cominciato a riunirsi con noi quando abbiamo letto le pagine di Tracce sul “Qualcosa che viene prima”».
Roberto e Cristina, prima che succedesse il “fattaccio”, si frequentavano solo per la comune passione per film tipo fantasy e supereroi. «Ora - dice Cristina - siamo diventati amici sui motivi che danno speranza alla vita. Inoltre, mi sono sentita accolta come fossi da anni con tutti loro. I giudizi che abbiamo espresso con il volantino li tengo sempre davanti a me: siamo finiti dentro un tunnel che sarà lungo e difficile, ma quelle parole ci ricordano sempre che la nostra vita è più importante di tutto e che il Signore, mentre stringiamo i denti, non ci abbandonerà».
«Quel volantino è servito innanzitutto a noi - sottolinea Roberto - perché mettere nero su bianco voleva dire esprimere giudizi che valessero per noi e per chiunque. Lì si è concretizzato il senso della Scuola di comunità. Gesù ha un impatto sulla vita, non in modo miracolistico, ma perché cambia, rende vivo il senso dell’esistenza».
«È proprio l’appartenenza comune a Cristo che mi ha fatto avvicinare al movimento», commenta Michele. Un’appartenenza che mette insieme anche storie diverse, come quella di Gabriele, che è neocatecumenale.
E così, è possibile ripartire ogni momento alla ricerca di nuove prospettive di lavoro, anche in un aiuto reciproco, in una situazione, come dice Gabriele, «dove si viene ancora al lavoro, ma non c’è più nulla da fare». Ormai i cinque amici sono soliti far circolare i loro curriculum “a pacchetto”, cioè tutti insieme. E poi studiano per migliorare le proprie competenze, in attesa degli eventi. Michele sta seguendo un master a distanza in ingegneria clinica, Roberto sta tentando di certificare la sua figura professionale. Un’amicizia operativa, che ha anche il sostegno di un’altra amicizia, quella che chiamano col termine “autorità”: «Ci ha colpito - conclude Roberto - sentirci valorizzati da don Carrón nei passi che compivamo. È un aiuto a farci capire, meglio di quanto non sappiamo fare noi, le cose che ci capitano sotto il naso».
(ha collaborato Angela Orlando)