Paola Bonzi.

«Non mi manca la vista. Mi manca l'infinito»

«Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?». Era la domanda su cui il Meeting 2015 aveva scommesso tutto. L'avevamo rivolta ad alcune personalità. Qui la risposta di Paola Bonzi, fondatrice del Cav
Alessandra Stoppa

«Io sono qui, creatura nuda davanti a tutta la bellezza che ritrovo nella natura e negli esseri umani. Ma il cuore non percepisce se non il suo essere vuoto. È vuoto perché qualcosa di grande lo deve riempire. È vuoto perché è pieno di nostalgia». Per Paola Bonzi la mancanza coincide con «una nostalgia», che ci accompagna un passo dopo l’altro «per arrivare al senso delle cose».

Perché nostalgia? Non risponde. Non subito. Dice che questo vuoto la inquieta, le crea «perplessità, domande e spesso angoscia. Perché vivere? Sento profondamente la mancanza di qualcosa che ho già conosciuto». Questa nostalgia è il tessuto delle sue giornate, «sarà anche il carattere...», dice. Poi aggiunge: «È una ricerca. Come di una cosa bellissima da cui vieni e a cui vuoi tornare». Sembra parlare di un legame così intimo e misterioso, viscerale, che solo può ricordare quello che si vive nel grembo materno e di cui lei si prende cura ogni giorno.

Paola Bonzi è la storica fondatrice del Centro di aiuto alla vita della clinica Mangiagalli di Milano, di cui è anche tenace responsabile da oltre trent’anni. Lei ne aveva 23 ed era appena diventata madre, quando ha perso completamente la vista. «Avevo dieci decimi». Non si è mai capita fino in fondo la sua malattia, ma da un giorno all’altro è diventata cieca e la sua bimba aveva quattro mesi. «A me non manca la vista. A me manca l’infinito». Si ferma in silenzio. «Io non soffro perché non posso vedere. Io soffro per la nostalgia di una presenza che vorrei avere sempre con me». Per questo, quando racconta delle sue giornate, dice che sono tutte un «dialogo». Quando le si chiede quante ore al giorno prega, risponde: «Non so, forse tutte. Quello che vivo, dalla mattina alla sera, lo vivo così, con un interlocutore a cui mi riferisco. Come ad una persona a cui vuoi molto bene».

Quando, già cieca e sotto terapia, è rimasta incinta del secondogenito, tanti le sconsigliavano di portare avanti la gravidanza. Lei, quando è stata sicura, è andata a comprare un gomitolo di lana per fare un maglioncino a suo figlio. «Era come un filo, diretto, con qualcosa che non sapevo definire. Con la vita. Sono stati nove mesi pieni di solitudine. Non è che non ci siano tuo marito, i genitori, gli amici... Ma è una solitudine interiore. Quando è nato Stefano ho detto: voglio aiutare le donne in gravidanza». Da lì, tutto quello che c’è stato fino ad oggi: più di 18mila bambini salvati e 23mila mamme accompagnate. «In ciascuna di loro c’è quella sofferenza che ho vissuto. Quella fatica che non possono dire a nessuno, che vivono con il loro bambino e magari con il loro Signore». Vede nelle donne che incontra quella nostalgia nel cuore? «Sempre. Se no, non starei lì. Capisco la loro esperienza e vedo il loro legame misterioso, quel filo».

Non ti aspetti che, parlando della mancanza, ti racconti della Terra Santa. «Per me quello è un posto dove tutto comincia. Ci sono stata cinque volte e, ogni volta, piango tutte le mie lacrime, perché mi vengono un sacco di dubbi. E, allo stesso tempo, sul lago di Tiberiade, penso: queste montagne c’erano anche a quei tempi... Non è una risposta preconfezionata, grazie a Dio. È una ricerca. Chiamo dolore questa ricerca, questo desiderio di tornare a Dio». In questa ricerca, tutto «diventa musica» per lei: «Non c’è più niente di stonato. È una musica che riempie tutto. Gli dico: chi sei e dove? Io so che Tu ci sei, che ci sono i miei compagni di strada e che tu riempi questo cuore che forse non lo sa, ma Ti cerca. La paura, la solitudine, il dolore: so che passeranno lasciandomi nella certezza di Te. Certezza che mi riempie di vita».