La "Giungla" di Calais.

«Cosa ne sarà di questa gente?»

I racconti di un gruppetto di londinesi che ha fatto visita alla baraccopoli di profughi sulla costa francese. Dalla sorpresa di un semplice "benvenuti" al pranzo insieme. Ma ora le ruspe hanno iniziato a smantellare tutto

La decisione era nell'aria. Ed è arrivata. Il tribunale di Lilla, nord della Francia, ha emesso l’ordinanza per smantellare la “giungla”, come chiamano tutti il campo profughi di Calais, dove i migranti attendono l’occasione buona per imbarcarsi in qualsiasi modo verso la Gran Bretagna. Quattromila persone, probabilmente di più, che gli agenti di polizia francesi stanno invitando a lasciare le baracche, mentre due bulldozer hanno già iniziato ad abbattere tutto. Pochi giorni fa un gruppetto di ragazzi e qualche adulto da Londra sono stati nella cittadina della costa francese della Manica. Ecco cosa hanno scritto al ritorno



Non ero riuscito a star dietro a tutte le novità riguardanti la crisi dei profughi, perciò non avevo idea di cosa dovessi aspettarmi, ero semplicemente aperto ad affrontare la situazione, qualunque essa fosse, disponibile ad aiutarli come potevo. Così, quando ho gettato il primo sguardo sull’enorme “giungla” del campo profughi con tutti i suoi graffiti, il fango e lo squallore, mi aspettavo veramente il peggio. Ho cominciato a sentirmi un po' terrorizzato all’idea di entrare in un campo pieno di gente al colmo della disperazione, che aveva rischiato tutto pur di arrivare in Inghilterra. Ma ero ancora aperto alla realtà, così ho seguito don Pepe e Anna che ci guidava, essendoci già stata. Al contrario mi sono reso conto ben presto che non c’era proprio nessun motivo di timore: infatti tutti gli abitanti del campo erano assolutamente accoglienti, amichevoli e molto umani, molto lontani dalla tipica figura del profugo ritratta dai media. Questa è stata la prima grande cosa che mi ha colpito: il fatto che quelle persone fossero esattamente come noi, cercavano di usare al meglio il tempo che trascorrevano in quel luogo. E difatti, in un piccolo ristorante improvvisato dove abbiamo pranzato, c’era un manifesto che diceva: “Noi non siamo pericolosi… Siamo in pericolo”. Così, sapendo che tutte quelle persone erano estremamente accoglienti, mi sentivo veramente al sicuro, anche più al sicuro che in luoghi più aperti al pubblico, come la City di Londra, come se questa gente ci avesse già accettato nella loro comunità. Una comunità che appariva così fraterna e solidale, probabilmente uno dei pochi posti al mondo dove musulmani, indù, cristiani ed ebrei vivono assolutamente in pace in una situazione di così stretta vicinanza e promiscuità. Quando abbiamo chiesto a un profugo del Sudan, di nome Sadiq, se fosse un cristiano, ci ha risposto che non importava, che per lui erano tutti uguali e pensava che tutti credessero nello stesso Dio. Ciò che mi sorprende veramente è l’impressione che tutti loro, condividendo la stessa realtà, sembrino abbracciarla insieme. Lo si vedeva anche da alcuni graffiti: su una delle capanne fatte di stracci stava la scritta: “noi siamo forti insieme” e anche “verità, amore e unità”. È così incredibile: non avendo altre distrazioni nella vita, loro possono vedere la verità più chiaramente, e cioè che l’importante è aiutarsi reciprocamente e dire al mondo la verità. Ma, naturalmente, non avevo solo pensieri positivi: molti di loro erano lì da tre o cinque mesi. Il che significa tre o cinque mesi senza una doccia come si deve. Cinque mesi negli stessi abiti, cinque mesi senza una reale certezza di entrare nel Regno Unito. Cinque mesi nei quali, se ti infanghi, resti infangato finché non ti regalano degli abiti nuovi; non c’è una assistenza medica adeguata, ma il peggio di tutto è vivere in una giungla di 6 mila persone prive di qualsiasi aiuto dal governo: tutto ciò che hanno è una serie di gesti forzati di elemosina. Questa gente è davvero coraggiosa per riuscire a essere ancora così felice e piena di speranza in una simile situazione. Avrei voluto aiutarli tutti, ma quel poco che potevo fare passando tra la folla era di donar loro un grande sorriso, per cercare di mostrargli che non sono dimenticati da tutti; ma come possono bastare pochi sacchi di patate per aiutare 6 mila persone, tra cui almeno 300 bambini indifesi e senza un tetto. Domani forse molti di loro saranno strappati dalle loro baracche, sfrattati dalla “giungla” proprio come è successo già sei volte a Sadiq. Cosa potrà accadere a questa gente? Potrebbero essere stipati nei container bianchi, senza poter mai vedere le bianche scogliere di Dover! Io credo che il Governo britannico non capisca queste persone, che certamente non sono una minaccia; ma la cosa deprimente è che, nella massa di milioni di rifugiati, almeno 6 mila di loro potrebbero avere un futuro assicurato nel Regno Unito nel giro di una settimana, se il nostro governo lo consentisse. Questa spedizione è stata per me un’esperienza splendida e commovente, un’occasione di crescita per la mia fede. Spero di non essere stato troppo prolisso, confuso o sgrammaticato, dato che ho perso i miei appunti.
John Paul


Nell’Eurotunnel, sulla via del ritorno dalla visita al campo profughi, il mio cervello non ha ancora elaborato del tutto ciò a cui ho appena assistito. Queste persone, queste strutture che chiamano case, le esperienze che hanno condiviso con me, sono tutte reali. Molto reali. È difficile da comprendere, perché la rapidità della situazione in cui ti trovi non ti permette di coglierla a fondo finché non hai il tempo per guardarti indietro e riflettere. Riflettere su ciò che hai visto e sentito. Ogni persona che incontravamo non mancava mai di sorridere o salutarci con un «Salve!», o un «Benvenuti!». Era davvero difficile da comprendere. Dopo tante sofferenze, separati dai propri cari, costretti ad abbandonare la propria patria e la vita di ogni giorno per finire in una situazione così tragica e disperata, come potevano essere ancora così accoglienti? Molto più accoglienti di chiunque si incontri nella vita quotidiana. Durante tutta quella giornata nella “giungla” abbiamo avuto modo di parlare con tante persone diverse, e tutti hanno raccontato le loro esperienze molto apertamente. Ma una storia mi ha colpito più di tutte. È la storia di un giovane di nome Sadiq. Lui ci ha raccontato di come fosse giunto dal Sudan dopo un lungo viaggio, e Calais non era il primo campo profughi dove aveva trovato rifugio. La “giungla” era il sesto campo in cui aveva abitato, e ogni campo in cui si era fermato l’aveva sempre raggiunto a piedi. A piedi, per centinaia e centinaia di chilometri. Sadiq ci ha spiegato che quando racconta alla gente che viene dal Sudan, nessuno si rende conto davvero di come sia grave la situazione da quelle parti. Ci dice ancora: «Tutti si preoccupano sempre per la Siria, l’Iraq e l’Afghanistan, ma non sanno nulla delle atrocità che accadono nel mio paese». Ci ha mostrato anche un’immagine delle condizioni in cui viveva in Sudan. Nella foto era incatenato alle caviglie. Era stato incatenato dal suo governo, poi in qualche modo era riuscito a scappare e ora si trovava a Calais. L’ospitalità di tutti gli abitanti del campo era incredibile. Ogni volta che passavamo davanti a un ristorante di fortuna, o a una bottega sgangherata, tutti quelli che erano là dentro ci gridavano: «Salve! Benvenuti, entrate!». Lo ripeto ancora: anche se le condizioni in cui vivono sono disperate e sinceramente disgustose, sono una comunità molto fiera che non ha mai perso il senso dell’accoglienza. Parlando così di questo campo forse sto dando l’impressione che i profughi si trovino in una situazione positiva. Credetemi, non è così. Il fatto che questa gente apparisse così felice esteriormente, nonostante la loro situazione, mi lascia una grande preoccupazione su quanto accada realmente nella loro testa. Stanno davvero così bene? E questo sorriso che hanno sul volto, c’è anche nel loro cuore? O forse questi sorrisi che ci rivolgono sono solo sorrisi impavidi, semplicemente un modo per reagire alle atrocità che stanno vivendo oggi? È semplicemente impossibile immaginare le condizioni in cui vive questa gente se non vedendole con i propri occhi. Solo vedendo tutto ciò dal vivo, davanti a me, ho capito davvero quanto sia disperata la loro situazione. Vedere queste persone che soffrono, prive di tutti i servizi essenziali che io do normalmente per scontati nella mia vita, genera in me un desiderio disperato di aiutarli. Desidero disperatamente di poter tornare là, per incontrare uno per uno i profughi del campo, parlare con loro, ascoltarli, dare loro una sorta di sollievo. So che non è possibile, eppure questo è un bisogno incredibilmente forte che sento dentro di me.
Martha


Nel lasso di tempo relativamente breve trascorso dall’ultima visita avevo quasi dimenticato il calore e l’apertura dei profughi del campo. I loro sorrisi. Ancora sporcizia, ancora fango, tanto fango. Sono stata felice di vedere la bella chiesetta ancora in piedi, ma per quanto tempo ancora? Si vede chiaramente che ultimamente l’intento delle autorità francesi è di smantellare il campo, pezzo per pezzo, lasciando alla fine solamente i freddi, asettici container bianchi simili a prigioni, al sicuro dietro i recinti, unico ricovero rimasto per i rifugiati. I container collocati qua e là in un parcheggio sterrato, monotone file allineate di grandi scatole di metallo bianco. Se i profughi si trasferiranno qui dentro, cosa sarà poi di loro? Adesso nel campo regnava la calma, niente polizia in tenuta antisommossa o armata di lacrimogeni come l’ultima volta. Mi chiedo se sarà ancora così lunedì prossimo, se davvero entreranno in campo le ruspe a spianare tutto come previsto. Io prego che non accada. Mi sento semplicemente impotente, disperata e infuriata perché questi poveri esseri umani non hanno un luogo dove andare, e mi chiedo cosa sarà di loro.
Anna