Le città di Gemona dopo il terremoto del 1976.

Un modello vincente

A cinquanta giorni dal sisma in Centro Italia si inizia a parlare di ricostruzione. Da dove partire? Quarant'anni fa, in Friuli, fu imboccata una strada, fatta anche di sussidiarietà e fede. Che non fece rinascere solo le città, ma un intero popolo
Robi Ronza

Al Meeting di quest’anno la mostra “La carità costruisce per sempre: Friuli 1976-2016. Il terremoto, i volontari, don Villa, la scuola e Radio Camilla” ha fatto scoprire a un vasto pubblico la vicenda, peraltro già nota ai lettori di Tracce, di una particolarissima scuola media nata in Friuli nel 1976 tra le macerie di Tarcento sconvolta dal terremoto del 6 maggio di quell’anno. Tuttora in piena attività sotto la guida del suo fondatore, il sacerdote ambrosiano don Antonio Villa, la scuola - oggi scuola paritaria di primo grado “mons. Camillo Di Gaspero” - resta in Friuli come l’eredità più visibile di una grande operazione di soccorso autogestita che impegnò allora un gran numero di comunità di CL.

È una storia - quanto mai attuale adesso che si pone il problema della rinascita di Amatrice e degli altri comuni colpiti dal terremoto degli scorsi 23-24 agosto - che merita di venire raccontata per diverse ragioni. Sia per la sua efficacia e per il suo valore educativo per le persone coinvolte, e sia perché si trattò di un caso molto rilevante di efficace attuazione pratica ante litteram del principio di sussidiarietà.

La ricostruzione di una zona terremotata dipende sempre in ultima analisi dall’esito dello scontro fra due diverse “filosofie”: una, a grandi linee di matrice illuministica, cui istintivamente inclina la burocrazia statale, che guarda alla zona colpita come a una tabula rasa su cui ricostruire “meglio” l’insediamento umano e quindi l’economia e la società. In tale prospettiva gli abitanti della zona terremotata, che tra l’altro si presume siano tutti quanti definitivamente sotto shock, vengono considerati un po’ come dei bambini in fasce (non a caso ci si preoccupa subito di nutrirli, sommergendoli di soccorsi alimentari non di rado in eccesso); e come dei bambini un po’ impiccioni. Perciò i grandi registi del soccorso e della ricostruzione, che sono su questa lunghezza d’onda, puntano subito al concentramento dei terremotati in tendopoli e villaggi di prefabbricati lontani dalla “zona rossa” o meglio ancora alla loro risistemazione in alberghi situati in lontane zone turistiche costiere, quasi fossero non dei veri abitanti dei luoghi, con impegni di lavoro e legittimi interessi in loco, bensì delle specie di figurine del presepe da ricollocare al loro posto nel futuro, a cose fatte.

Chi, invece, prende le mosse dal convincimento che in ogni circostanza si debba puntare sulla persona, vede nei terremotati i protagonisti per vocazione della rinascita delle zone colpite: famiglie e comunità da sostenere, non da sostituire. Tutto questo per noi era più che mai possibile grazie alla già consolidata presenza del Movimento a Udine.

Ricordo, il giorno dopo il sisma, la telefonata di Daniele Milocco, che sarà poi l’infaticabile organizzatore in Friuli della gestione degli aiuti e del movimento dei volontari provenienti dal resto d’Italia. Recatosi poi subito a Udine, don Giussani offrì all’arcivescovo monsignor Alfredo Battisti la solidarietà del Movimento alla Chiesa friulana. Ne nacque un’iniziativa, su richiesta dell’arcivescovo ancorata alle parrocchie dei paesi colpiti, che nei molti mesi della fase dell’emergenza mobilitò complessivamente oltre 3 mila persone da ogni parte d’Italia; e che ne vide poi diverse centinaia coinvolte a più lungo termine negli anni successivi.



















Appena terminata la fase del primo soccorso, sia per noi che per altri soggetti (tra cui in primo luogo l’Associazione Nazionale Alpini) divenne prioritario l’impegno a facilitare la permanenza delle famiglie o nelle case ancora agibili o nei pressi della casa inagibile evitando quanto più possibile il concentramento dei terremotati nelle “tendopoli”. Questo per evitare che alla distruzione degli edifici si aggiungesse anche la lacerazione del tessuto sociale con le sue consolidate relazioni di lavoro e di prossimità.

In tale prospettiva, mentre si avvicinava l’inverno 1976-77 ci ponemmo due obiettivi prioritari: da un lato l’allestimento di centri di incontro per i ragazzi e di aiuto per gli anziani e le famiglie gestiti da volontari che venivano a condividere a turni più o meno lunghi la vita delle persone alloggiate sotto le tende e nei “container”; dall’altro la promozione del prestito gratuito di roulottes in cui le famiglie in grado di farlo potessero svernare vicino alle loro case danneggiate o a quel che ne restava. Decine di proprietari di roulottes si resero disponibili al prestito recandosi perciò di persona dalla Lombardia e da altre regioni in Friuli a consegnarle alle famiglie destinatarie. Oltre alle roulottes venivano pure forniti piccoli ma solidi magazzini prefabbricati chiudibili a chiave in cui le famiglie potessero riporre tutto ciò che via via riuscivano a ricuperare dalla casa distrutta o lesionata.

Ci si oppose, inoltre, con largo successo all’allontanamento dei bambini e dei ragazzi in età scolare dalle zone colpite, nella convinzione che dovessero restare con i loro genitori anche nel primo difficile inverno dopo il sisma. Con la loro naturale vitalità in circostanze del genere i più piccoli non sono di peso, bensì di sostegno ai più grandi. La scuola fondata da don Villa a Tarcento sorse allora come sviluppo di uno degli “oratori estivi” creati nell’estate 1976 perché bambini e ragazzi avessero un luogo sicuro dove giocare e studiare. Le macerie e le case lesionate sarebbero state altrimenti per loro un affascinante, ma pericoloso campo giochi proprio mentre i genitori non potevano seguirli perché assorbiti dai mille problemi di chi vive e lavora in una zona sconvolta da un terremoto. Come strumento di aiuto a famiglie decise a rifarsi la casa da sé nacque poi un consorzio di cooperative di servizi alla ricostruzione, il Co.RAF, cui nel 1978 già aderivano 47 società allora impegnate complessivamente in 433 interventi di riparazione di case danneggiate e in 105 ricostruzioni di case crollate.




















Da alcuni di noi vennero infine molti contributi di idee alle leggi regionali di cultura tipicamente sussidiaria con cui il Friuli-Venezia Giulia - grazie alla sua speciale autonomia ma anche alle deleghe del governo nazionale - diede ampio e rapido sostegno alla volontà delle famiglie di ricostruire o riparare di propria iniziativa le case distrutte o danneggiate (le quali ultime, diversamente da quel che fa vedere la Tv, sono sempre la maggior parte di quelle raggiunte dalle onde sismiche). Nell’insieme tutto ciò ebbe un effetto catalizzatore anche su soggetti ed energie che andavano ben oltre noi e le nostre forze.

Conclusa la fase del primo soccorso e dell’emergenza, che per natura sua non può che essere di tipo “militare”, e che nel Friuli del 1976 venne ottimamente gestita dal commissario straordinario Giuseppe Zamberletti, il governo dell’epoca (presidente del Consiglio, Aldo Moro, ministro degli Interni, Francesco Cossiga) pose termine alla gestione commissariale mettendo la ricostruzione nelle mani della Regione e dei Comuni. Questi, a loro volta, l’affidarono innanzitutto ai diretti interessati.

Pur se la parola specifica non era ancora entrata nel linguaggio comune – osserviamo concludendo - l’esemplare rinascita dell’alto Friuli sconvolto dai terremoti del 1976 fu un grande caso di applicazione del principio di sussidiarietà. Questo grazie al positivo combinarsi sia di obiettivi fattori socio-economici locali che di scelte politiche e di modelli culturali consapevoli. La Chiesa friulana ebbe un ruolo di primo piano. E il Movimento diede un contributo di cruciale importanza.