Constantin Sigov.

Sigov: «Siamo il polmone ferito, respirate con noi»

Ortodosso, di Kiev, Constantin Sigov è uno degli intellettuali protagonisti della rivolta del Maidan. In vista delle prossime elezioni e del futuro politico (ma non solo) del suo Paese, si è confrontato con il volantino di CL (da "Tracce", maggio 2014)
Luca Fiore

Constantin Sigov è nato e vive a Kiev. La sua lingua madre è il russo. È un ortodosso del Patriarcato di Mosca. Eppure, filosofo formatosi a Parigi e direttore della casa editrice Duch i Litera, è stato uno degli intellettuali protagonisti della rivolta di Piazza Maidan. In questi mesi si sta spendendo per spiegare le ragioni profonde di quel che sta accadendo in Ucraina.

Qual è l’aspetto che trova più interessante nel documento?
La cosa che mi è parsa più interessante è, da una parte, il doppio tema del valore della persona e della sua relazione con l’altro; dall’altra, l’idea della libertà, come viene espressa nel documento. L’uomo è legato a ciò che crea la realtà, cioè è connesso con il Creatore, e questo lo rende libero dal potere. Questa idea di libertà dà la possibilità di vincere l’isolamento, di sentirsi pronti a dialogare con l’altro, che è ciò che ha dato origine all’Europa, secondo il desiderio dei suoi padri fondatori. È un concetto importante per tutte le generazioni, compresa quella odierna che parteciperà ora alle elezioni. La comprensione dell’altro, del diverso, è il tema chiave.

Oggi l’Ucraina sembra il Paese più europeista d’Europa. Perché?
Proprio perché, in questo momento di profonda crisi politica, la gente ha recepito e vissuto davvero quello di cui ha parlato il primo presidente della Repubblica Ceca, Václav Havel, ne Il potere dei senza potere. L’uomo supera la menzogna dell’ideologia nella vita personale e sociale solo quando scopre l’altro, quando scopre la fiducia e la compassione. Le élites si rendono conto che da sole non possono risolvere i problemi della loro società, che devono prestare attenzione all’altro. Nel nostro caso agli ucraini orientali e occidentali, del Nord e del Sud. Quella straordinaria mistura di apertura, tolleranza, interesse per l’altro che è stata evidente quest’inverno a Kiev e in altre città dell’Ucraina, è un’incredibile esperienza storica che certamente l’Ucraina deve condividere con l’Europa.

Gli ucraini sognano davvero di entrare nell’Unione Europea?
Il rapporto degli ucraini con l’Unione Europea è molto positivo. Io direi che per loro non è un sogno, ma che essi constatano realisticamente l’esistenza di un futuro comune tra Unione Europea e Ucraina. Non ci sono dubbi che l’Ue abbia davanti a sé un cammino per superare la crisi antropologica legata all’ideologia comunista e totalitaria, e per superare l’illusione che tutto si sia risolto per conto suo tra il 1989 e il 1991. Gli europei più convinti hanno capito che la questione non è chiusa, il tema continua ad essere attuale. E oggi capiamo nuovamente che l’Europa non può evitare di riconoscere e giudicare il totalitarismo tedesco e quello sovietico, e di intraprendere un serio cammino per superare questa malattia. È un compito comune all’Ucraina e all’Unione Europea.

Che cosa ha da insegnare l’Ucraina di oggi ai Paesi dell’Ue e che contributo può dare l’occidente all’Ucraina?
Il primo compito dell’Occidente è quello di fermare la guerra in Europa e quindi in Ucraina. È necessario che l’Italia e tutta l’Europa agisca in modo più deciso. E assieme al sostegno dello stato è necessaria anche un maggior coinvolgimento della società civile. Un esempio di questo è l’iniziativa del Forum Europeo per l’Ucraina. Da parte sua, l’Ucraina non pretende di insegnare, ma piuttosto vuole dire che è il momento adatto per cominciare un dialogo che non si basi solo su interessi di tipo economico o sul livello diplomatico, ma che si fondi su un profondo interesse di contenuto. Accade che dopo un incontro diplomatico, durante il quale si sono discussi temi economici e pratici, ci si renda conto che nel rapporto tra i due Stati può iniziare un dialogo più profondo e vitale su cosa fondi la società l’uomo, il cui oggetto è più fondamentale ancora delle ragioni che inizialmente avevano spinto i due Paesi a stipulare un’alleanza. Mi sembra che il messaggio che deve comunicare agli altri Paesi l’Ucraina sia che bisogna andare oltre la paura, che è necessario un grande coraggio per tener testa alla tirannia, alla propaganda minacciosa e alla violenza che anestetizzano la società. E in ciò è assolutamente necessaria la solidarietà, il superamento della divisione, dell’individualismo. È necessaria l’unità tra le persone. Uno degli aspetti più difficili da comprendere per gli europei che sono venuti a Kiev è la solidarietà tra chi si considera agnostico ma conserva dei valori etici e morali, e chi si riconosce invece in una precisa tradizione: cristiana, ebraica, musulmana. Proprio queste persone costituivano il Maidan. Il Maidan è stato il luogo dove si sono incontrati i membri parte dell’unione ucraina delle confessioni, e dall’altra parte chi non era pronto a partecipare a nessuna confessione. Si sono trovati insieme, sono stati solidali uno con l’altro e sono riusciti a collaborare con grandissimo rispetto reciproco. Sul Maidan si recitava la preghiera del mattino e della sera; questa cosa inizialmente ha stupito gli ospiti europei, gente con uno stile di vita europeo, ma pian piano, chi tra loro si trovava a Kiev ha capito che non c’era contrasto tra chi difendeva i diritti dell’uomo, chi portava avanti i valori europei e, dall’altra parte, quelli che confessavano una fede, senza temere di parlarne apertamente. Non è un paradosso, un confronto impossibile, al contrario, sono due mondi connessi con radici comuni.

Che cosa significa oggi per l’Ucraina, considerando anche quello che accade nell’Est del Paese, che «l’altro è sempre un bene»?
L’esempio più lampante della percezione dell’altro come un bene, prendendo in considerazione le differenze interne all’Ucraina, è il fatto che la gente ha capito che è arrivato il momento di fare gesti di autentica solidarietà. È successo, ad esempio, quando hanno cercato di strumentalizzare la questione della lingua per il gioco politico, questione che di per sé oggi in nessun modo deve dividere l’Ucraina. Per noi non è fondamentale, mentre invece sembra essere tale per la propaganda russa. Subito dopo l’annuncio della legge sulla lingua (che in un primo momento sembrava dovesse penalizzare i russofoni; ndr), la città di Leopoli ha fatto sapere che era pronta a parlare in russo, e per un giorno hanno parlato in russo. Un editore ha proposto di stampare dei libri in russo e hanno fatto delle letture di poesie in russo. E Donetsk ha fatto la stessa cosa con l’ucraino. Questi gesti costruiscono il nostro quotidiano sia a livello della vita della città, che delle regioni e delle singole persone. La gente è sempre pronta a sottolineare che l’importante è la realtà. E la diversa provenienza etnica dei tatari di Crimea, degli ebrei di Odessa e di Kiev, della gente che vive nella parte orientale o occidentale dell’Ucraina non impedisce loro di sentirsi cittadini di un’Ucraina libera.

Che contributo può dare il cristianesimo all’Europa? L’esperienza del Maidan che cosa può insegnare in questo senso?
Osservando tanti eventi vediamo che a parlare più chiaramente di speranza (nonostante le grandi difficoltà che abbiamo passato in inverno e in primavera) sono le persone che capiscono che non tutto dipende dalla volontà umana, che non tutto viene deciso dai politici e dai generali. C’è una speranza che supera l’immaginazione dell’uomo, ed è proprio questo che i cristiani ucraini e europei condividono. E non vi è alcun dubbio che di questa novità abbia bisogno anche l’Europa contemporanea. L’idea della speranza non è un concetto ingenuo o un infantile ottimismo. Nell’impatto con le peggiori difficoltà e con le prove più dure, l’uomo scopre in se stesso la speranza nell’altro, la necessità dell’altro, e capisce che è nell’altra persona che può trovare le risorse che non avrebbe mai potuto trovare in sé nel momento in cui ha perso la speranza. In questo modo, nel livello personale della relazione tra due persone cambia la prospettiva dell’intera società.

Giovanni Paolo II parlava di un Continente con due polmoni, uno a Est e uno a Ovest. È ancora interessante che i due polmoni respirino insieme?
L’ultimo incontro a Roma tra il Primo ministro ucraino e il Papa ha mostrato che esiste senza dubbio il desiderio di dialogare e di collaborare. La penna che il Papa ha regalato al Primo ministro, per la futura firma del trattato di pace, dice proprio che, nonostante le difficoltà, l’Europa ha bisogno del respiro di entrambi i polmoni. Teniamo presente che le persone uccise sul Maidan sono una testimonianza di come sia sofferente il polmone orientale, di come esso sia stato ferito, e quindi, affinché possa tornare a respirare e diventi realmente indipendente dalla pressione politica, ci sia bisogno di un percorso di guarigione e ripresa, seguendo tutte le fasi della convalescenza che sono necessarie dopo una grave malattia o un grave incidente. Il segnale che un polmone non può respirare liberamente è la difficoltà di parola. Tanti Vescovi tacciono o non sono in grado di dare alla comunità la profondità che cerca. Affinché la parola possa finalmente tornare a esprimersi deve ricostituirsi la capacità di respirare. Ma allo stesso tempo, è una dimostrazione di quanto sia necessario l’altro polmone. Quando uno dei due polmoni è malato, un uomo può vivere e recuperare le forze grazie al fatto che l’altro funziona bene. Per questo è benefica la presenza di entrambe le tradizioni del cristianesimo, orientale e occidentale, che rende più profonda la collaborazione tra i due polmoni.