Il Family Day del 30 gennaio.

Perché quel "prima" non è astratto

Le unioni civili e il dibattito in corso. Julián Carrón, nel suo articolo al "Corriere della Sera", ha sottolineato un punto che viene prima di ogni dialettica. Ma come questo può essere utile? Il contributo di un amico

Julián Carrón, nella sua lettera al Corriere, mette in evidenza che, rispetto al dibattito sulle unioni civili, c'è un "prima", c'è qualcosa che viene prima rispetto alla frenetica ricerca degli argomenti pro o contro. Da un veloce scambio di mail con una bravissima preside che stimo molto, ho capito una cosa: questo "prima" di cui parla Carrón, è considerato teorico, astratto, magari giusto ma inutile. Mi spiego: chiedevo alla preside (a cui avevo proposto la lettura dell'articolo) se secondo lei non si sta rischiando, da parte di tutti, di considerare il coronamento legale dei desideri (o la loro cancellazione da ogni sistema legale) la realizzazione, la meta ultima, la pace assoluta della propria vita - tanto è forte l'accanimento delle posizioni - senza comprendere che ogni desiderio esprime l'esigenza di un significato per vivere (Chi sono io? Come realizzare la mia esigenza di amare e di essere amato?...), esigenza che ha bisogno di molta strada per trovare strumenti che la aiutino ad emergere, ad essere considerata, anche nel tessuto sociale.

Lei mi ha detto: «A queste esigenze non c'è risposta, o meglio, ognuno ha una risposta propria e soggettiva. Adesso la questione è un'altra - ha aggiunto - ben più urgente e concreta: da che parte essere, da quella della civiltà e dei diritti o dall'altra. Insomma: stiamo coi piedi per terra». Allo stesso modo, ho letto anche tante dichiarazioni di cattolici. Carrón, secondo loro, ha posto le premesse (giuste e teoriche), poi l'azione, il concreto, è altra cosa. Oppure: Carrón ha aperto un dualismo tra la testimonianza personale e l'azione pubblica.

Ma cos'è questo "prima", questo "dialogo sui fondamenti" di cui parla Carrón (anche nel suo libro La bellezza disarmata) e che da tanti viene sentito come astratto o, almeno, meramente introduttivo e "ornamentale"?

Due anni fa fui nominato commissario di italiano per l'esame di stato, presso un istituto tecnico di Jesi. Durante i colloqui con gli studenti, emergeva sempre più evidente, all'interno della commissione, una opposizione tra me e il professore di elettronica. Io partivo dalla valorizzazione del minimo lavoro dei ragazzi. Lui da uno sguardo molto severo e selettivo. Tale dibattito stava degenerando in scontro aperto, finché non decisi di aprirmi e di scoprirmi: regalai al collega un articolo di Carrón sull'educazione e un discorso di papa Francesco ai docenti, raccontando l'esperienza che stavo facendo a scuola a partire dall'ipotesi di fondo che avevo sul significato dell'educazione; lui, colpito, mi aprì la sua esperienza, il suo significato, raccontandomi di come aveva visto che molti ragazzi troppo aiutati e favoriti da scuole "facili", poi erano stati distrutti e superati nel mondo del lavoro. Questo incontro provocò un'atmosfera nuova in commissione, ci mise al lavoro entrambi, ci aprì nuove prospettive di giudizio.

Nel Vangelo si racconta di due fratelli che vanno da Gesù perché litigano sull'eredità. Ognuno di loro ha tantissime ragioni e tanti dati da presentare a proprio favore. Gesù dice che il suo compito non è quello di porsi come giudice o arbitro (di fare leggi) e aggiunge uno sguardo nuovo, un'ipotesi nuova che viene prima di tutto, cioè che la felicità dell'uomo non dipende dai beni accumulati. Gesù è teorico? Astratto? O lo sguardo che pone sta alla base di un cammino reale verso la verità di quella controversia?

Il "prima", il dialogo sui fondamenti, lo vedo in questi due elementi: innanzitutto, il comprendere, come si legge ne La bellezza disarmata (p. 27), che «è proprio il riaccadere dell'avvenimento cristiano che riapre l'uomo alla scoperta di sé e consente all'intelligenza della fede di diventare intelligenza della realtà». Tenendo conto che «ciò non significa in alcun modo contrapporre la dimensione dell'avvenimento e la dimensione della legge, ma riconoscere un ordine genetico fra esse». Inoltre, il "prima" vuol dire che il rapporto, l'incontro con l'altro non è un modo soft, civile e pacato, per portare l'altro a proprie idee già consolidate e costituite, compiute, ma è essenziale per giungere alla convinzione. Scrive Carrón, citando Benedetto XVI: «La libertà necessita di una convinzione, una convinzione non esiste da sé - né la può generare una legge - ma deve sempre essere riconquistata comunitariamente. Questa conquista delle convinzioni fondamentali non avviene se non dentro un rapporto». Nel rapporto, cioè, c'è qualcosa di nuovo e inaspettato che si apre e presenta nuove prospettive. Insomma, come affermava spesso monsignor Giussani, «la realtà si fa trasparente nell'esperienza».

Per questo, mi sembra che si possa affermare che in una posizione nuova della persona (in uno sguardo più aperto, in qualcosa che viene prima) c'è già l'inizio della soluzione. Di un cammino, lento e lungo, ma certo per riacquistare le certezze perdute.

Nicola, Ancona