Aldo Moro con papa Paolo VI.

«Nel nome di mio padre»

Cent'anni fa nasceva lo statista democristiano, che ha dato la sua vita per il bene comune. La figlia Agnese, che ha partecipato anche al Meeting di quest'anno, racconta com'era il suo papà, quando «da piccola mi teneva la mano finché non mi addormentavo»
Paola Bergamini

Ho un ricordo infantile di mio padre che amo molto. La sera, se era a casa, veniva a farmi dire le preghiere quando andavo a dormire. Avevo paura di tante cose. Con pazienza mi aiutava a guardare in tutta la stanza, controllando che non ci fossero pericoli, né cose spaventose. Poi mi teneva la mano finché non mi addormentavo. Aveva delle bellissime mani, morbide, rassicuranti. Quella mano che mi accompagnava nella notte e nel sonno non l’ho mai dimenticata. Anche oggi è lì, a proteggermi e incoraggiarmi». Il padre in questione è Aldo Moro, segretario della Dc, ucciso dalle Brigate Rosse il 9 maggio 1978, dopo 55 giorni di prigionia: l’apice degli Anni di piombo. Il ricordo appartiene alla terza figlia: Agnese, 63 anni, sociopsicologa, protagonista di uno degli incontri più seguiti dell’ultimo Meeting di Rimini. Con il criminologo Adolfo Ceretti e Maria Grazia Grena, appartenente alla lotta armata negli anni Settanta, ha raccontato un’esperienza unica: l’incontro tra ex terroristi e alcune vittime, un cammino durato sette anni, che ha trovato voce ne Il libro dell’incontro (vedi Tracce, 1/2016). Perché «la cosa più orrenda della violenza è che trasforma le persone in cose», ha detto a Rimini: «E le cose non dialogano. Per riaprire una strada compromessa in maniera grave bisogna tornare a essere persone».
Dialogo, apertura. Ma anche giustizia e bene comune. Sono stati alcuni tratti importanti del pensiero e dell’opera politica di Moro, di cui il 23 settembre ricorre il centenario della nascita. Qualcosa non relegabile al passato, ma un’eredità a cui attingere ora. Con Agnese Moro, allora, proviamo a ritrovare l’attualità dell’insegnamento di uno dei padri della nostra Costituzione.

Suo padre è stato uno dei protagonisti di quello che molti storici considerano un miracolo: l’uscita dell’Italia dalla distruzione della guerra attraverso un dialogo che ha fatto prevalere le ragioni del bene comune del popolo sugli interessi delle parti contrapposte. Il frutto più eclatante di questo è la Costituzione italiana. A settant’anni da quegli eventi, quale lezione possiamo raccogliere per affrontare una fase complicata della vita del nostro Paese, che sembra aver smarrito le ragioni di un’unità più forte delle divisioni?
Guardando a quella stagione mi sembra che le persone che l’hanno animata - malgrado le profondissime differenze - siano state unite da due potenti legami. Uno, più appariscente, è l’antifascismo, nel suo senso globale, di profondo orrore per il radicale disprezzo che il fascismo ebbe per la vita umana, per la dignità delle persone, per la libertà, per la solidarietà sociale e la giustizia. Il secondo, meno evidente, è quello del senso di responsabilità nei confronti delle vite di quelle persone - tra cui tanti giovani - che avevano lavorato per una Italia libera e democratica, ma erano morte prima di poterla vedere realizzata. Scrive mio padre a un gruppo di universitari cattolici trentini: «Perché da essi (...) viene la consegna a noi che siamo restati, e non sappiamo perché, a riprendere il faticoso cammino della nostra storia». È quel «e non sappiamo perché», quell’essere immeritatamente vivi, quel debito contratto in qualche modo con loro, che ha creato, tra coloro che hanno costruito la Repubblica, un secondo, profondo legame. Sarebbe bello se si potesse tornare un po’ a quelle ragioni, a quelle aspirazioni umane, a quelle speranze, sentendoci ancora parte di una grande storia di liberazione.





















«L’esperienza politica, come esigenza di realizzare la giustizia nell’ordine sociale, di superare la tentazione del particolare, per attingere valori universali, è coinvolta dunque nello sforzo di fare, mediante il consenso e la legge, l’uomo più uomo e la società più giusta». Viviamo in un periodo di profonda crisi politica: che valore hanno, oggi, queste parole di suo padre?
Credo che possano essere un’occasione di riflessione sul senso della parola “politica”, così importante e troppo spesso utilizzata per indicare cose che nulla hanno a che fare con il bene comune. Ma sono anche una proposta che invita a riprendere un cammino iniziato con la Costituzione, che riguarda il tentativo di raggiungere grandi fini, come la giustizia e una più piena umanità. Credo che possano essere anche un incoraggiamento per tutti coloro che non si rassegnano a vivere in un mondo di reciproci egoismi e di diffidenze.

È noto il rapporto profondissimo che legava Moro a Paolo VI. Che cosa ha significato per suo padre l’essere cattolico di fronte al “rischio” dell’azione politica e dell’esercizio del potere?
Guardi, nella sua vita vedo soprattutto una grande vicinanza e fiducia in Dio. Vedo poche affermazioni di principio e molta vita vissuta. Nessun disprezzo nei confronti degli altri e dei diversi. Nessuna fierezza di appartenenza. Nessuna crociata. Si è tenuto attaccato a Gesù con la Comunione che faceva ogni giorno per rispondere a un bisogno di vicinanza e di sostegno. Non ha mai usato la sua fede come una bandiera o come una clava. Gli è stata utile anche come consapevolezza di essere un minuscolo pezzo di un enorme sforzo verso il bene, come “principio di non appagamento”, come capacità di alzare e allargare lo sguardo. A me ha dato una bella testimonianza del fatto che nulla potrà mai separarci dall’amore di Dio. Non l’hanno allontanato da Lui né l’orrore patito negli ultimi 55 giorni della sua vita, né le lusinghe dei “palazzi”. Sono sicura che Dio è stato sempre accanto a lui e che di questo, pur nelle tante difficoltà, era consapevole. Sapeva che il mondo è già stato redento, e a caro prezzo, e, senza nascondersi l’esistenza e la potenza del male, sapeva vedere il cammino del bene e il suo silenzioso prevalere.

Un giovane che oggi sente il desiderio di «non guardare la vita dal balcone», come ha detto papa Francesco, e che decida di impegnarsi nella società e nella politica, quale lezione potrebbe imparare accostando il pensiero e l’azione di Aldo Moro?
Credo che potrebbe appassionarsi alla difesa della dignità umana e al piacere di uno sforzo comune per andare oltre se stessi e i propri egoismi. Troverebbe passione, rispetto, umorismo, amore per la verità e per le persone comuni. E, ovviamente, la consapevolezza sofferta che cercare di sostenere libertà e giustizia costa. A lui è costato non solamente la perdita della vita, ma anche la fatica di perseverare, di dedicare ogni risorsa alla crescita della società e del Paese, la quotidiana rinunzia al riposo e allo svago e alla possibilità di godersi le cose semplici della vita. Potrebbero imparare quanto è importante essere affettuosi, colti e intelligenti.



















Nell’epoca della Guerra fredda dei fronti contrapposti - cattolici e comunisti, ad esempio -, Aldo Moro non esitò ad aprire una linea di dialogo con il Pci, così come alla fine degli anni Cinquanta aveva cercato il coinvolgimento del Partito socialista, inaugurando la stagione del centrosinistra. In un Parlamento dove sembra quasi impossibile parlarsi, da dove ricomincerebbe suo padre?
È impossibile sapere come si comporterebbe. Forse si metterebbe in mezzo, come ha sempre fatto. Creerebbe occasioni e luoghi di dialogo. Per spiegare, per «cercare di capire e di farsi capire». Ricreando legami e riproponendo obiettivi.

Suo padre è stato docente universitario. Don Giussani lo ricordava nel parterre del Palalido di Milano in mezzo a migliaia di giovani durante un grande convegno di universitari di Comunione e Liberazione, invitato da alcuni suoi studenti della Sapienza, pieno di curiosità per quel nuovo movimento. Quale era il suo rapporto con i giovani?
Di profondo rispetto e fiducia, di stima e di incoraggiamento. Gli piaceva stare con loro, ascoltarli, insegnare. È qualcosa a cui non avrebbe mai rinunciato e che ha riempito la sua vita. Per dirla con le sue parole: «Credo di avere ricercato, dal momento nel quale ho iniziato il mio insegnamento, un dialogo disinteressato e cordiale con i giovani. Esso ha continuato a svolgersi per moltissimi anni, nelle condizioni umane e sociali le più diverse, sempre costruttivo e, per me, utile e gradevole. È difficile dire che cosa, obiettivamente, ne sia derivato. Non vi sono criteri di accertamento e di misura. Per parte mia ne ho ricavato una sensibilità aperta al movimento e rinnovamento; una garanzia contro la cristallizzazione e il conformismo. Ho forse dato, o contribuito a dare, il gusto per quel che tocca la dignità umana e riguarda l’assolvimento del proprio compito nel mondo». Perché di questo si tratta, «di riuscire a credere di avere un dovere da compiere nella gioia come nell’amarezza. E polarizzare intorno ad esso le complesse e misteriose ragioni della vita».