Il Ministro Cancellieri con i pasticcieri della<br> cooperativa <em>Giotto</em> del carcere di Padova.

«Io, cambiata da quello sguardo»

Il lavoro da cronista l'ha portata più volte tra i detenuti di Padova. Ci torna, per una visita del ministro di Giustizia. E pensa di conoscere già tutto: il lavoro e quegli uomini che riscoprono la speranza. Ma poi succede qualcosa...
Paola Bergamini

Lunedì 14 ottobre. Nel cortile del carcere di massima sicurezza di Padova aspetto l’arrivo del ministro di Giustizia in visita. Penso alla prima volta che sono venuta. Era il 2006. Non ero mai entrata in un carcere. Ricordo l’impatto, quasi la paura, dei cancelli che via via, mentre percorrevo i corridoi, si chiudevano alle mie spalle. E poi l’incontro con i detenuti, che mi avevano raccontato la loro storia: l’errore commesso, l’amicizia con chi attraverso il lavoro gli offriva la possibilità di una vita nuova e poi per alcuni il cammino di conversione... Il male mi era venuto addosso. Il pensiero: ma tanto io non avrò mai a che fare con tutto questo, era svanito. Avevo solo il desiderio di conoscerli per vedere cosa permette di risollevarsi. Di avere una speranza. Era stata una sorpresa inaspettata che mi era rimasta nel cuore. Per lavoro e anche per amicizia sono tornata altre volte. Sei, sette, non mi ricordo. Ormai conosco, so tutto...

Appena inizia la visita al seguito del ministro, l’amico avvocato con cui sono venuta mi dice: «Ti sto attaccato. Lo facciamo insieme il giro». Non me lo aspettavo.
Siamo in tanti: magistrati, avvocati, autorità del mondo carcerario, imprenditori, guardie, volontari. Un lungo corteo. Arriviamo ai padiglioni dove i carcerati lavorano: il call center, l’assemblaggio delle biciclette, la pasticceria. Tutte cose già viste. Speriamo che il ministro rimanga colpito. È il mio pensiero. Nicola Boscoletto, presidente della cooperativa Giotto, illustra il lavoro, chiama i detenuti a spiegare. L’amico mi dice: «Nicola ha sempre un grande impeto nel raccontare. Sembra sempre la prima volta. È commovente. Non molla mai. Va sempre al cuore della questione: l’uomo». Io non ci avevo fatto caso. In fondo, so già di cosa si tratta.

Nell’auditorium l’incontro con i detenuti. Giovanni, Biagio, Michele raccontano del cambiamento avvenuto nella loro vita. I fogli nelle loro mani tremano. Tocca a Bledar, ergastolano. «Ogni giorno mi vergogno di quello che ho fatto. Ho distrutto due famiglie. Ma qua dentro ho capito il valore della vita. Ho adottato a distanza un bambino in Africa. Io ringrazio tutti». Parla il ministro. Il mio amico mi tira un braccio: «Hai sentito? Solo per questo valeva la pena venire. Per questo il mio lavoro ha senso. Da fare fino in fondo».

Mi giro e dall’alto Bledar mi riconosce, si allarga in un sorriso, mi saluta con la mano. Ci siamo incontrati quattro volte. La sua storia la conosco bene. Ma questo adesso non conta. Conta il suo sguardo intercettato per pochi secondi. Lo sguardo di un uomo felice. Lo stesso sguardo che aveva il giorno della sua Cresima, ricevuta proprio in questo auditorium prendendo il nome “Giovanni”. Contano le parole dell’amico che mi ha risvegliato dal torpore del già saputo. Il peccato è anche questo. Mi vengono in mente le parole di don Giussani nel Volantone di Pasqua del 1992: «Sei nella tempesta, irrompono le onde, ma vicino hai una voce che ti ricorda la ragione, che ti richiama a non lasciarti portar via dalle ondate, a non cedere. La compagnia ti dice: “Guarda che dopo splende il sole; sei dentro l’onda, ma poi sbuchi fuori e c’è il sole”. Soprattutto ti dice: “Guarda”. Perché in ogni compagnia vocazionale ci sono sempre persone, o momenti di persone, da guardare. Nella compagnia, la cosa più importante è guardare le persone. Perciò la compagnia è una grande sorgente di amicizia. L’amicizia è definita dal suo scopo: l’aiuto a camminare verso il Destino». Vale per Bledar Giovanni, per il mio amico avvocato e per me.