«Non posso lasciare da solo quell'uomo»

Continua il viaggio di Tracce sul tema "occupazione" iniziato nel numero di febbraio. Dallo sportello per aiutare chi cerca a un nuovo modo di fare il proprio mestiere. Ecco cosa è cambiato in alcuni giovani sindacalisti a partire da un'amicizia


Paolo Perego

Due sabati al mese. La sede è quella della Cisl Lombardia, a Milano. Due bicchierini del caffé sul tavolo, vicino a un faldone pieno di curricula e di fogli che raccontano di una cinquantina di ragazzi alla ricerca del lavoro negli ultimi mesi. «È uno sportello per i giovani disoccupati», spiega Matteo Parmigiani, sindacalista Felsa Cisl sulla trentina, iniziando a parlare di ciò che spinge lui, e altri giovani come lui, a dedicare una mattina del weekend per incontrare gratuitamente chi è alla ricerca di un impiego. Nulla di studiato a tavolino: «Semplicemente, abbiamo iniziato a guardare a un bisogno che emergeva incontrando tante persone tutti i giorni».
I dati sulla disoccupazione, giovanile in particolare, sono sotto gli occhi di tutti: con un tasso che sfiora il 42%, sono quasi 660mila gli under 25 fermi al palo. Senza titolo, diplomati, laureati: non fa differenza. E in tanti non sanno bene neppure come muoversi. Hanno bisogno di aiuto.

La partenza è quella: uno che ti chiede una mano. «All’inizio erano due o tre. Poi hanno iniziato ad arrivarne altri, dopo che la voce si è sparsa». Ragazzi giovani, in tanti casi alle prime armi nell’avventura dell’entrare nel mondo del lavoro. «Neolaureati o neodiplomati per lo più, che si guardano intorno senza "mestiere"», dice Matteo, che col mondo del lavoro ci "lavora" tutti i giorni. Bisogna aggiustare i curricula, che spesso sono «un disastro», oppure dare qualche dritta su come affrontare i colloqui, su quali competenze esibire. «A volte li indirizziamo a qualche corso di formazione per integrare le loro competenze, e se capita proviamo a passargli qualche offerta di lavoro che ci arriva attraverso amici e conoscenti».

Un accompagnamento, insomma. Fatto anche solo di chiedere a Elettra, per esempio, marchigiana neolaureata in Lettere, come sta andando la sua ricerca, come le è sembrato il tal colloquio e se il trovarsi con altri nelle sue condizioni a cercare insieme è un metodo che funziona. A parlare con lei c’è Manuel Giovanati, collega di Matteo. «Cerchiamo di capire anche in che modo possiamo essere utili, quali sono i punti più critici della loro ricerca, e di che cosa hanno bisogno davvero. Spesso parlare con loro ci aiuta a chiarirci meglio le idee su quello che stiamo facendo e su come possiamo migliorare. È un tentativo, ma serve anche a noi, rispetto al modo di fare il nostro di lavoro, nel sindacato».

«Non abbiamo inventato nulla», dice Alberto Trevisan, che lavora a Lugano per il sindacato d’ispirazione cattolica svizzero, l’Ocst, ma che in questa trama di rapporti si è trovato coinvolto fino al collo: «Abbiamo trovato qualcuno che nel fare questo lavoro da anni ci ha affascinato. E gli siamo andati dietro». Il "siamo" è un gruppetto di una quindicina di giovani sotto i trent’anni, che, chi da qualche anno e chi in procinto di iniziare, si è coinvolto con alcuni "vecchi" sindacalisti dell’area Cisl. E ha iniziato a prenderne l’eredità. «Quello che queste persone ci hanno proposto, è stata innanzitutto un’amicizia, che potesse, come è stato per loro, educarci e sostenere il nostro modo di lavorare». Fino ad affidare ai nuovi una realtà che avevamo cominciato 10 anni fa, il circolo culturale Ettore Calvi, dal nome del primo segretario Cisl.

È una forma, spiega Daniel Zanda, «che dice pubblicamente quello che viviamo, attraverso incontri e altre iniziative, a partire dalla Dottrina sociale della Chiesa. Ciò che ci interessa è che la nostra esperienza cristiana arrivi a entrare nel merito di quello che facciamo ogni giorno».
È cambiato nel modo di lavorare, Emanuele Zelioli, rispetto a quando ha iniziato il mestiere: «Col tempo ho capito che nel rapporto con le persone che incontro io vado a toccarle nel vivo: il lavoro è qualcosa di importantissimo. Tanto che cerchi sempre il confronto con gli altri». Accompagni le persone, dice, per un pezzo della loro vita, che abbiano perso il posto o che siano in difficoltà più o meno gravi: «Ecco, tu dai una risposta per quel pezzo, per quella necessità contingente. Ma quello è solo un aspetto, una piccola parte di tutto il loro bisogno. E quel particolare diventa una porta per approfondire quel rapporto».
Come è accaduto a Daniel, per esempio. Durante una trasmissione televisiva. «Mi avevano chiamato come esperto per rispondere agli ascoltatori», spiega. Telefona un tale, Roberto. Racconta la sua storia, del lavoro in un bar lasciato per accudire il padre dopo la morte della madre. E dei tentativi di suicidio, senza speranza dopo la scomparsa anche del papà. E la luce e il gas tagliati... «Io gli ho detto due cose. Primo, che la morte non è mai l’ultima parola sulla vita. E poi di lasciare il suo contatto e lo avrei richiamato. Ma quando sono andato al centralino per farmelo dare, aveva lasciato un altro nome. Ho preso il numero lo stesso e andando alla macchina ho telefonato. "Sono Daniel, ci siamo sentiti prima. Come ti chiami?". E lui: "Ma sei davvero tu? Mi hai chiamato veramente?". Il sabato dopo, con Matteo, siamo andati a trovarlo. E abbiamo iniziato a dargli una mano».

È una responsabilità, dice Daniel, guardare l’altro così. «Io quello non lo posso lasciare da solo. È accaduto a me, prima, di non essere mai stato lasciato solo». E uno «sguardo su di sé ricevuto», raccontano ancora, che oggi si portano dietro in ogni ora del lavoro. Da quando stanno allo sportello a quando vanno nelle aziende per le assemblee a dirimere vertenze o farsi conoscere. «Altrimenti come posso stare davanti a un disoccupato a casa da due anni, o andare in un’azienda dove ne devono lasciare a casa 100 per fare una trattativa? Quello che ci ha appassionato, e continua ad appassionarci, è che stiamo facendo un percorso di crescita come uomini e come cristiani, innanzitutto. E che questo può diventare opportunità per tutti quelli che incontriamo».

Tradotto? Perché i conti si fanno col fatto che il lavoro di tanti è a rischio, che le aziende chiudono o tagliano, e che gli stipendi non crescono di pari passo con il costo della vita. Puoi arrivare dai lavoratori, dice ancora Daniel, con un tono da onnipotente: «C’è un problema? Ci penso io. Diatribe col datore di lavoro? Ci parlo io... E invece a volte arrivi, come a una recente assemblea in un istituto di formazione, e li guardi. E li tratti da uomini per davvero. "Ci saranno sempre degli elementi in cui si dovranno giocare la vostra libertà e responsabilità. Nessuno può regolare in un contratto collettivo cosa dovete fare con due bambini che litigano, e se, in caso, ci sia un elemento di retribuzione superiore. Lì vi giocate voi". È la realtà che si impone. Anche se a volte è drammatica, come quando un’azienda deve lasciare a casa qualcuno».
Che non sia semplice, te lo dicono chiaramente questi ragazzi. Il mondo del lavoro affronta oggi un periodo durissimo. Solo nell’ultimo anno si sono persi quasi 450mila posti in Italia: «È qualcosa con cui ti scontri tutti i giorni. Certo che vorresti che tutti avessero un impiego stabile. Ma la realtà spesso è diversa», dice Emanuele. «Il tentativo che possiamo fare noi è che anche il tempo in cui uno è "precario", qualunque sia la condizione, anche con in mano un contratto di tre mesi, sia un’opportunità per lui. Non solo da un punto di vista delle competenze e dei rapporti che potranno servire in futuro, ma innanzitutto che uno possa giocare "tutto" di sé. E allora adoperiamo tutti gli strumenti "contrattuali" possibili perché questo possa accadere. Il tema dell’apprendistato che stiamo portando avanti va in questa direzione, per fare un esempio».

Occorre imparare a guardarli in faccia, i lavoratori, dicono ancora i giovani sindacalisti: «Non dare per scontato nulla. Tanto che capita di commuoversi facendosi raccontare quello che fanno, come lo fanno, e scoprire quanto amano il loro lavoro. Allora, affermare la "giustizia" davanti a tutto questo vuol dire voler bene a quelle persone, al loro bisogno. Ed è questo, alla fine, il nostro lavoro».