Un cimitero del genocidio a Kigali, Ruanda.

«Così abbiamo ricominciato a vivere»

Il 6 aprile 1994 segnò l'inizio del genocidio nel Paese africano. Centinaia di migliaia di morti, massacrati a colpi di machete. «Basta col sangue!», tuonò papa Wojtyla. A vent'anni di distanza, il racconto della rinascita
Paola Ronconi

Il 14 marzo, una corte di Parigi ha condannato a 25 anni di carcere per complicità in genocidio e crimini contro l’umanità Pascal Simbikangwa, vent’anni fa capitano della guardia presidenziale in Ruanda. È la prima sentenza per il genocidio che fece quasi un milione di morti e un esodo di dimensioni incalcolabili nel giro di un centinaio di giorni. Esattamente vent’anni fa.
Fu una questione razziale, una pulizia etnica, hutu contro tutsi, le cui origini ideologiche vanno cercate agli inizi del 900 durante la colonizzazione belga. Proprio i belgi si appoggiavano nello sfruttamento coloniale all’etnia tutsi che deteneva un potere monarchico di tipo feudale nel Paese. Gli hutu, 85% della popolazione, presero il potere verso il 1960 e da lì iniziò una persecuzione contro gli avversari, costretti, per sopravvivere, a fuggire oltre confine. Furono gli anni 80 a vedere una vera e propria pianificazione del genocidio ai danni dei tutsi.
Il pretesto, il 6 aprile 1994, fu l’abbattimento a Kigali dell’aereo dove viaggiava il presidente ruandese Juvénal Habyarimana, colpevole per gli estremisti hutu (del suo stesso partito) di aver ceduto alle pressioni internazionali che spingevano alla democratizzazione, a intraprendere dal 1991 la strada della riconciliazione.
Fu l’inizio di una carneficina a colpi, soprattutto, di machete.
L’Occidente non capì subito la gravità di una vera e propria guerra civile. Tra i primi a condannare le violenze (e forse il primo a parlare di genocidio) fu Giovanni Paolo II nel Regina Coeli del 15 maggio 1994: «Sento il dovere di evocare, oggi ancora, le violenze di cui sono vittime le popolazioni del Ruanda. Si tratta di un vero e proprio genocidio, di cui purtroppo sono responsabili anche dei cattolici. Giorno per giorno sono vicino a questo popolo in agonia e vorrei nuovamente richiamare la coscienza di tutti quelli che pianificano questi massacri e li eseguono. Essi stanno portando il paese verso l’abisso. Tutti dovranno rispondere dei loro crimini davanti alla storia e, anzitutto, davanti a Dio. Basta col sangue! Dio attende da tutti i Ruandesi, con l’aiuto dei paesi amici, un risveglio morale: il coraggio del perdono e della fratellanza».

Avsi fu tra le prime ong a entrare in territorio ruandese dall’Uganda per aiutare le vittime del conflitto, soprattutto con interventi di sostegno psicologico, in primis coi bambini.
Oggi Lorette Birara è la rappresentante di Avsi nel Paese africano.

Che Paese è oggi il Ruanda?
Il Ruanda ha fatto dei grossi progressi dopo e malgrado il genocidio del 1994 per il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Dal 2000 al 2012 la mortalità infantile è scesa della metà, così quella femminile. Però, malgrado una crescita economica e uno sviluppo impressionanti, nella classifica dei Paesi in base all'Indice di Sviluppo Umano (HDI) definito dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, che pubblica regolarmente una relazione, il Ruanda nel 2013 era al 167esimo posto su 187 Paesi, con il 44% della popolazione sotto la soglia di povertà.

Dove si vedono maggiormente le conseguenze del genocidio oggi?
Bisogna capire che lo sterminio dei tutsi è stato particolarmente atroce per il modo in cui si è svolto.
Il genocidio è stato perpetrato con armi tradizionali (machete, lance, bastoni chiodati) che hanno lasciato segni sia fisici che psicologici. E questo riguarda sia chi è stato vittima in prima persona, sia chi deve averne cura, parenti o amici. È difficile perché le nuove generazioni in particolare difficilmente accettano e comprendono situazioni come odi tra famiglie (o all’interno di una famiglia stessa). Molti sono tirati in causa da fatti in cui non c’entrano (in quanto non erano ancora nati).
Il genocidio è arrivato in ogni famiglia, ognuno è stato in qualche modo toccato. Molte famiglie erano miste, e i ruandesi vivevano insieme sulle colline, condividendo tutto. Chi non ha perso un parente, ha perso un amico.
Poi c’è la paura che la tragedia si possa ripetere. Le nuove generazioni pongono delle questioni ed esigono risposte più elaborate in quanto comprendono la realtà di ciò che è stato nel 1994 dalle conseguenze: per i giovani nati da violenze, questa presa di coscienza è particolarmente difficile; poi ci sono famiglie che vivono poveramente perché hanno subito saccheggi; c’è chi ha avuto perdite importanti; e c’è chi ha i genitori in prigione (attualmente sono quasi 90mila i prigionieri detenuti nelle carceri ruandesi; ndr).
Tutto questo è reso ancora più pesante dai problemi della regione dove sentiamo molto l’instabilità causata dal genocidio dei tutsi (esilio verso il Congo e gli altri Paesi vicini, guerre latenti).
E se non possiamo negare che un processo di riconciliazione è iniziato, la sfiducia persiste perché le ferite sono state troppo profonde. Si esita ancora ad andare verso l’altro e tutti hanno paura che quell’orrore possa riprodursi.

Cosa fa Avsi in Ruanda?
La storia di Avsi nel Paese è iniziata nell’agosto del 1994, all’indomani del genocidio. Al suo arrivo si occupò di bambini, soprattutto per i problemi psicologici e per la fisioterapia. Penso che Avsi si sia occupata della parte più importante per la ricostruzione del Paese, ed è anche ciò che sa fare meglio: quella del cuore e dell’anima delle persone. Il genocidio ha lasciato dei sopravvissuti distrutti come persone. Aver visto una tale tragedia, ha svuotato la gente della loro umanità. Senza speranza, senza fiducia, senza una prospettiva per il futuro. Avsi ha da subito iniziato a ricostruire l’umanità della gente, delle famiglie, per ridare loro il gusto di vivere, aiutando a credere di nuovo, a tornare ad avere fiducia in loro stessi e negli altri. Li ha aiutati a ripensare l’avvenire per rifarsi una vita sia materialmente che psicologicamente. Soprattutto Avsi ha lavorato per ridare speranza ai bambini, vittime innocenti.
Oggi la sua azione è su progetti di sviluppo nel campo socio-educativo e sanitario, coi bambini e le loro famiglie, in cinque distretti del Paese. Ha come obiettivo il miglioramento delle condizioni di vita dei bambini in difficoltà attraverso la promozione e l’educazione alla famiglia, il supporto economico, compreso i miglioramento di vita dei giovani, per far sì che possano godere dei diritti fondamentali (che spesso restano sulla carta).

Da quanto sei lì?
Sono arrivata in Avsi nel 2004. Ho avuto l’occasione di entrare in contatto con Avsi, in un momento in cui cominciava un imponente lavoro di supporto al OVC (Orphans and Vulnerable Children) nella regione dei grandi laghi (Kenia, Uganda, Ruanda).
Dopo questa prima esperienza sono rimasta affascinata perché era la prima organizzazione che dava spazio e importanza alla singola persona. Nel mio lavoro, Janviere è la persona che più mi colpisce. Si è salvata perché gli assassini della sua famiglia la credevano morta. In seguito ha incontrato Avsi in un progetto di riabilitazione di persone handicappate, vittime del genocidio. Tutti i tentativi per trattare il suo corpo sono stati vani e oggi è completamente paralizzata. Questo non le ha impedito di accogliere altri bambini, vittime della guerra. È una madre per loro. Vivono con lei e condividono quel poco di cui lei dispone. E comunque lei continua a vivere, anche a ridere e a consolare gli altri. Anche se lei non può muoversi (a parte la testa), è sempre molto curata, lo smalto sulle unghie, sempre ben pettinata, ben vestita. Lei mi dice sempre che quando si è amati, val la pena vivere, qualunque siano le difficoltà. Oggi, quando sono passata da lei, l’ho chiamata e abbiamo chiacchierato, la sua sete di vivere e il suo coraggio mi ridanno la forza di affrontare le difficoltà.