La statua della libertà l'11 settembre 2001.

Il vero american dream

Il quarto articolo della serie sull'attentato è un'intervista a Paolo Valesio*, docente alla Columbia University. La poesia americana dopo il 2001 è stato uno sfogo di espressione, ma «ciò che rimane è un senso attivo di amore, come esperienza terrena»
Suzanne Tanzi

In che modo è cambiata, ai suoi occhi, l’idea del sogno americano, in seguito agli eventi dell’11 settembre?
Il sogno americano, che si può interpretare in molti modi - tanti quante sono le persone - ha però sempre alla sua radice l’idea della libertà. In quanto poeta e scrittore, sono spinto naturalmente a concentrarmi sulla libertà di parola. Ho notato una tendenza preoccupante dopo il 2001: una sorta di autocensura. Ricordo di aver letto un articolo di giornale in cui una figura di spicco del governo affermava: «Dobbiamo stare molto attenti a cosa diciamo...». Perché, mi sono chiesto, proprio adesso che dovremmo essere aperti a una riflessione approfondita e critica su quanto è successo, tramite l’espressione verbale e scritta? Per esempio, la poesia americana punta all’eccellenza; e quale modo migliore che non vagliare e contemplare quanto è accaduto? Ma secondo me poche poesie significative sono uscite dalla penna dei “professionisti”: la paura ha avuto il predominio in un momento in cui il rischio avrebbe potuto condurci a un nuovo livello di consapevolezza. Il linguaggio della colpa e della vendetta è stato forse represso, si è riversato nelle due guerre. Anche il linguaggio che si usava non era sempre sincero. Per esempio, chiunque fosse morto quel giorno era un “eroe”, ma i veri eroi erano i soccorritori e i pompieri: gli altri in realtà erano “vittime”. Ma in quel periodo la poesia tendeva a essere molto emotiva. Tra la gente - studenti e non, giovani e vecchi - c’è stato un grande sfogo di espressione: così tanti fogli di carta, come semi gettati nel fango!

Questi semi hanno fruttato un cambiamento negli ultimi dieci anni?
Spero che i rischi corsi da quelle persone nella scrittura, pur grossolana com’era, possano averle aiutate ad aprirsi. Non posso parlare a nome di tutta l’America, ma come cittadino americano che desidera accogliere e vivere l’intera traiettoria della libertà vera, da quel momento la mia abituale avversione per il pudore e il ritegno nella scrittura, per la sterilizzazione dell’espressione, si è intensificata molto. E in questo mi ritrovo a mettere l’uomo davanti all’intellettuale. Quel che si è aperto, per me, è stata la consapevolezza che l’importante sono le amicizie, non la politica.

Lei ha avuto una ricca formazione culturale, avendo trascorso anni a Harvard, Yale, e ora alla Columbia…
La Ivy League è un mondo bello ma alquanto artificiale in cui vivere, si corre il rischio di affezionarsi troppo ai successi accademici o anche all’ideologia politica. Le Torri Gemelle mi hanno insegnato che dobbiamo dare valore all’umano, dobbiamo prenderci cura gli uni degli altri. Ora mi sento più distaccato dalla politica fine a se stessa. Penso che quel che rimarrà sempre nella memoria collettiva di questa città, e forse di tutti gli Stati Uniti, è l’esperienza di questa amicizia quasi tribale che abbiamo condiviso. Non ci sono stati atti di sciacallaggio, ma solo aiuto; tutti sono andati in chiesa e in sinagoga, e in altri luoghi di unità e riflessione; tutti ci siamo fatti avanti, disposti a credere che nulla sarebbe più stato come prima. Ora, com’è forse naturale, siamo ricaduti nella vita terrena, ma credo che nel 2001 New York abbia riscoperto la sua vitalità, il gusto per la vita, e che questa consapevolezza ci sia ancora oggi.

E il suo lavoro, allora e oggi?
Be’, sul momento mi domandai se fosse il caso di scrivere poesie: come sa, le poesie possono essere viste come qualcosa di ornamentale. Non volevo “decorare” questa tragedia con la poesia, quindi ho esitato. Ma sono stato spinto da una dedizione totale ai morti, che mi ha ispirato a scriverne. Ho pubblicato due poesie che esprimono questa solidarietà nel dolore, ma quasi subito ho abbandonato il progetto di una poesia che mi era stata dettata dalla rabbia, perché non esprimeva affatto il senso di quel momento… All’epoca ci fu molto interesse per la poesia di W.H. Auden, 1° settembre 1939. Mi piacciono questi versi a volte impacciati, scritti da un inglese espatriato (come io, a un livello molto più modesto, sono un espatriato italiano), e mi permetto di dissentire con la successiva decisione di Auden di scartare questo testo. Mi trovo anche in sintonia con quel verso troppo spesso citato: «Dobbiamo amarci l’un l’altro o morire». E se anche accettiamo la lettura alternativa, «dobbiamo amarci l’un l’altro e morire», ciò che rimane per me è un senso attivo di amore come esperienza terrena, quotidiana. Forse è questo a incarnare il vero sogno americano.

* Paolo Valesio è titolare della cattedra di Letteratura italiana "Giuseppe Ungaretti", Dipartimento di Italianistica, Columbia University e Direttore della Italian Poetry Review (IPR)

W.H Auden
1° settembre 1939

Siedo in una delle bettole
della Cinquantaduesima strada
incerto e spaventato
vedendo scadere le astute speranze
d’un decennio basso e disonesto:
onde di rabbia e di paura
circolano per le luminose
e oscurate contrade della terra,
ossessionando le nostre vite private;
l’indicibile odore della morte
offende la notte di settembre.

Le ricerche degli esperti possono
riesumare intera l’offesa
che da Lutero ad oggi
ha fatto impazzire una cultura,
scoprire quello che successe a Linz,
quale immensa illusione ha creato
un dio psicopatico:
io e il pubblico sappiamo
quel che i bambini imparano a scuola,
coloro a cui male è fatto,
male faranno in cambio.

L’esule Tucidide sapeva
tutto quello che può dire un discorso
sulla Democrazia,
e quello che fanno i dittatori,
l’antiquato ciarpame che raccontano
a un apatico sepolcro;
egli analizzò tutto nel suo libro,
la ragione messa al bando,
il dolore che plasma l’abitudine,
il cattivo governo e il cordoglio:
tutto questo ci è inflitto un’altra volta.

In quest’aria neutrale
dove ciechi grattacieli usano
tutta la loro altezza a proclamare
la forza dell’Uomo Collettivo,
ogni lingua versa a gara
la sua scusa vana:
ma chi può vivere a lungo
in un sogno euforico;
essi guardano fuori dallo specchio
la faccia dell’imperialismo
e il torto internazionale.

Le facce lungo il bancone
s’aggrappano al loro giorno medio:
le luci non devono mai spegnersi,
la musica deve sempre andare,
tutte le convenzioni cospirano
perché questa fortezza assuma
l’arredamento di casa;
perché non vediamo dove stiamo,
persi in un mondo stregato,
bambini spaventati dalla notte
che mai felici sono stati o buoni.

Le idiozie di partito più vacue
che gridano le Persone Importanti
non sono radicali come il nostro
desiderio: quel che il folle Nijinsky
ha scritto su Diaghilev
vale per il cuore di tutti;
ché ogni donna e ogni uomo
nutre nelle fibre l’errore
di bramare quel che non può avere,
non l’amore universale,
ma d’avere per sé solo ogni amore.

Dal buio conservatore
gli ottusi pendolari entrano
nella vita etica,
ripetendo il voto mattutino:
“Sarò fedele a mia moglie,
mi concentrerò di più sul lavoro”,
e i governanti impotenti si svegliano
riprendendo il loro gioco obbligato:
chi può liberarli adesso,
chi può arrivare ai sordi,
chi può parlare per i muti?

Tutto quello che ho è una voce
per svelare la bugia nascosta,
la bugia romantica ch’è nel cervello
del sensuale uomo della strada
e la bugia dell’Autorità
i cui edifici frugano il cielo:
non c’è una cosa chiamata Stato
e nessuno esiste da solo;
la fame non lascia scelta
al cittadino né alla polizia;
dobbiamo amarci l’un l’altro o morire.

Senza difesa il nostro mondo
giace sotto la notte attonito;
eppure, accesi ovunque,
ironici punti di luce
lampeggiano là dove i Giusti
si scambiano i loro messaggi:
oh, che io possa, composto come loro
d’Eros e di polvere,
assediato dalla medesima
negazione e disperazione,
mostrare una fiamma affermativa.

Traduzione di Nicola Gardini.
W.H. Auden, Un altro tempo, Mondolibri, Milano 2003.