Il carcere di San Vittore, Milano.

Festa popolare, in carcere

Gabriele e la sua band hanno portato la musica irlandese a San Vittore. Italiani, sudamericani, marocchini e rom: ognuno ha tenuto il tempo con balli della propria tradizione. E al canto "Fields of Athenry" sono scoppiati in un applauso...

Un pomeriggio di luglio: cielo azzurro, sole e una bella temperatura, musica, canti, battiti di mani, girotondi, danze… Sembra una festa popolare, mancano solo la birra e le salamelle. Ma non è una festa popolare: siamo nel carcere milanese di San Vittore, precisamente nel giardino esterno della sezione femminile. È la seconda volta che varco il portone di via Filangeri grazie all’invito di Daniela di Incontro e Presenza, associazione che da oltre venticinque anni assiste i carcerati. Questa volta portiamo la musica irlandese con la nostra band, la ShamRock Band. È una musica che amiamo e che ci affascina, ma da qualche giorno mi chiedo se sia una buona idea: la tradizione popolare da cui proviene non è certamente vicina a quella dei carcerati milanesi. Superati i controlli all’ingresso e quelli ad un paio di cancelli ci ritroviamo nel campetto dove le detenute trascorrono l’ora d’aria.

Poco dopo le 16, gli agenti fanno entrare le detenute della sezione femminile e un gruppetto di detenuti della sezione maschile (un evento per San Vittore e, per l’occasione, gli agenti sono numerosi e ben attenti). Iniziamo a suonare. Dopo qualche minuto di imbarazzo, il clima si distende e le persone iniziano a lasciarsi coinvolgere e partecipare. Le etnie e nazionalità rappresentate sono tante: italiani, sudamericani, slavi, rom, marocchini… La nostra musica è allo stesso tempo semplice e immediata anche se non banale (tecnicamente per chi la suona spesso non è facile), ma il ritmo è lo stesso a tutte le latitudini e ognuno “ci mette sopra” le sue danze. Gli agenti seguono il ritmo con la testa e le mani, le donne sudamericane sovrappongono i loro movimenti di samba, le ragazze rom (dopo aver atteso il “via libera” dalla più anziana) si lanciano con movimenti arabeggianti, chi resta fuori dalla danza fa il tifo per la propria amica, chi sta dentro va a prendere per mano il compagno che è rimasto seduto. Anche gli uomini alla fine si lanciano. Sì, è una festa popolare anche senza birra e salamelle.

Alle danze alterniamo brani da ascoltare e da cantare assieme, insegniamo i ritornelli e li spieghiamo. Le canzoni raccontano anche della vita travagliata del popolo irlandese e molte accennano al carcere e quando - con un po’ di pudore - lo facciamo notare si alza qualche mugugno, ma non siamo lì né per dimenticare né per dire qualcosa da un piedistallo, come gli amici di Incontro e Presenza ci hanno ricordato, siamo lì per stare come siamo con queste persone. Nel canto Fields of Athenry un marito in carcere che sta per essere deportato dice alla moglie di tirare grande il figlio con dignità. Timidamente la dedichiamo a tutti i papà e mamme presenti e, come risposta, immediatamente parte un applauso e molti fanno cenno di sì con la testa.

Terminiamo dopo quasi due ore di musica, canti e balli (e noi esausti). Vedo sorrisi e facce contente tra i detenuti e anche tra gli agenti che ci chiedono quando ritorniamo. Raccogliamo le nostre cose con l’aiuto della “squadra tecnica”: Antonio e Camel («come le sigarette» ci tiene a sottolineare lui) e ci avviamo all’uscita. Salutiamo le guardie al portone con un «arrivederci» spontaneo e ingenuo che - a pensarci - fa un certo effetto. Prima di tornare alle nostre case, ci ritroviamo davanti all’ingresso del carcere con i volontari dell’associazione e gli amici della band: gli occhi e le parole raccontano di una contentezza del cuore.
Gabriele