Giuseppe De Rita, fondatore del Censis.

«Aumentare la potenza di fuoco dell'Io»

Disoccupazione e università in affanno. Sacche clientelari e federalismo miope. Giuseppe De Rita e Giorgio Vittadini, faccia a faccia al Centro Culturale di Milano, hanno mostrato le zavorre del nostro Paese. E una possibilità: dare fiducia alla persona
Niccolò De Carolis

«Il vero problema dell’Italia è il lavoro. Il nostro Paese in passato è uscito dalle crisi lavorando. Ma oggi è sempre meno possibile farlo». Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà e docente di Statistica all’università Bicocca, lo dice all’incontro “L’Italia tra paura e futuro: il tempo della persona” organizzato dal Centro culturale di Milano nell’auditorium della Fondazione Cariplo di Milano. Accanto a lui; Giuseppe De Rita ha portato la sua esperienza cinquantennale alla guida del centro di studi Censis.

«Il nostro numero di occupati è al di sotto della media europea e il problema riguarda soprattutto i giovani», sostiene Vittadini: «Se non affrontiamo questi dati, tutte le proposte che possiamo fare sono discorsi. La sussidiarietà non deve servire alle Regioni o ai Comuni, ma a dare la possibilità alla gente di lavorare, che è il fondamento della nostra Costituzione. In che modo? Moltiplicando la potenza di fuoco dell’io: dandogli l’opportunità di scegliere dove formarsi, facendo in modo che le scuole e le università competano sul valore e sul merito (oggi in Italia il voto medio nelle lauree specialistiche è 108). Bisogna garantire alla persona le risorse saltando ogni tipo di mediazione, come è stato fatto con i voucher o i buoni scuola».

Basta, dunque, con i tanti passaggi di mano del denaro pubblico che, come spiega De Rita, sono stati il più grande freno allo sviluppo: «Oggi si parla sempre di Stato sprecone, ma il problema sta nel percorso, nella transazione della liquidità. A ogni livello si è formata una sacca clientelare e parassita. Cosi ciò che dall’alto arriva al basso è ormai stato in buona parte depredato». Ma non bisogna fare l’errore di credersi più innocenti dei politici, tutti hanno contribuito, più o meno consapevolmente, a questo stato di cose. Il presidente del Censis prende come esempio il periodo in cui lavorò con il ministro Moratti alla riforma dell’università: «Stavamo progettando il sistema del “3 più 2” e chiedemmo agli atenei un’indicazione su quanti corsi di laurea sarebbero dovuti nascere. Ci arrivarono 3.600 proposte, che riuscimmo a ridurre solo a 2.100. Ma il sistema universitario in cui siamo non l’hanno voluto solo i presidi o i senati accademici, ma tutte quelle famiglie che, costi quel che costi, non vogliono vedere i propri figli abbandonare gli studi».
Vittadini propone un modello diverso di università e di spesa pubblica: «Nel mondo anglosassone le rette sono più alte ma i soldi dello Stato vanno agli studenti. In questo modo si responsabilizza la persona. Da noi lo statalismo è stata una droga che ha coperto tutti, meritevoli e non meritevoli. Ha garantito un’occupazione che non serviva. Oggi questo non è più possibile, ogni soldo dato deve avere un ritorno, basta con questo modello di ammortizzatori sociali».

Al tavolo dei relatori ci sono due cattolici, così l’ultima questione affrontata è il contributo che la tradizione di cui fanno parte ha dato e può dare al nostro Paese. «I cattolici sono gli unici che hanno il senso della complessità», spiega De Rita: «Perché la Chiesa stessa è una realtà complessa: da un lato il valore infinito del singolo, dall’altra la tensione verso il bene comune. Talvolta abbiamo dimenticato uno di questi due aspetti». Se l’Italia si trova in questa situazione, una parte di responsabilità è condivisa: «Un istituto cattolico non deve rimanere aperto solo in quanto istituto cattolico, ma perché offre un servizio competente», conclude Vittadini: «Neanche noi dobbiamo sottrarci a un giudizio di merito, non possiamo più permettere che una cosa che non vale stia in piedi. In alcuni casi abbiamo commesso l’errore di pensare che l’appartenenza basti da sola e possa far saltare la responsabilità dell’io. Non può più essere così».