Cinque domande sulla Nota

Che cos'è l'unità? E la "distanza critica"? Questi e altri interrogativi. Li proponiamo come sono emersi dall'esperienza di chi, pur lontano dalle vicende italiane, si confronta con la stessa sfida: il rapporto tra impegno politico e natura del carisma
Ignacio Carbajosa Pérez

Anche da noi, in Spagna, la Nota di Comunione e Liberazione sulla situazione politica italiana ha dato origine a un ricco e intenso dialogo dentro e fuori il movimento, mostrando una volta ancora che le circostanze storiche sono un’occasione per comprendere il carisma che ci ha affascinato e crescere nell’intelligenza della fede.
D’altro canto, basterebbe dare un’occhiata alla storia di Cl per capire che l’affermazione - che a volte si sente fuori dai confini dell’Italia - «questa è una questione italiana, non mi riguarda», contiene un grandissimo equivoco. In realtà, i passi decisivi della nostra storia, quei momenti in cui don Giussani, prendendo coscienza di una difficoltà o di un equivoco, ha proposto un nuovo passo o una correzione di rotta, sono nati da circostanze nella maggior parte dei casi “italiane” (e non avrebbe potuto essere diversamente). Conoscere quelle circostanze ci permette di capire e, soprattutto, assimilare meglio il passo storico che ci viene proposto adesso. Oggi ci troviamo davanti a una di queste circostanze. Quindi, in una situazione appassionante. Questo articolo vuole contribuire al dialogo che è nato intorno alla questione dell’impegno politico e della natura del carisma, rispondendo a cinque domande che la lettura della Nota ha suscitato.

La Nota afferma che «l’unità del movimento non è una omologazione politica, tanto meno si identifica con uno schieramento partitico, ma è legata all’esperienza originale di Cl». Se l’unità non è espressa da un voto unitario, che cos’è l’unità? Per rispondere a questa domanda, è utile capovolgerla: se l’unità si esprime attraverso un voto unitario, chi è a deciderlo? Allora ci rendiamo conto che ci siamo scoperti uniti in una comune esperienza di corrispondenza: l’unità sta all’origine, ci precede, la scopriamo, vi aderiamo. Una esperienza che ci ha visto uniti intorno a don Giussani, nell’obbedienza allo Spirito Santo e alla sua Chiesa, e che nella sua articolazione matura ha un punto di unità intorno a Julián Carrón, presidente della Fraternità.
Sarebbe patetico, e non rispondente al contenuto più vero della nostra esperienza, ridurre l’unità alla convergenza di azione attorno a un diktat, anche se provenisse dalla guida ultima del movimento. Non a caso don Giussani entrando al Liceo Berchet di Milano sfidò la libertà dei suoi studenti: «Non sono venuto qui per convincervi delle mie idee, ma per insegnarvi un metodo con cui giudicare tutto, comprese le cose che dico». Affascinati da quell’uomo che amava la libertà dei suoi studenti, quei primi allievi che lo seguirono si scoprirono uniti a lui. E lo stesso don Giussani si stupiva di quella unità come di un dono: «Io appartenevo all’unità con quei tre». Allora sì, quei ragazzi cominciarono a muoversi uniti, sorpresi da una esperienza comune (che era un giudizio) che li precedeva.

Legata alla prima domanda ne sorge una seconda: dall’esperienza originale di unità è sempre nato il desiderio di confrontarci in tutte le cose che facciamo. Che cosa significa confrontarsi con l’esperienza del movimento? Non dovrebbe esserci un confronto per decidere il voto (comune)? Qui bisogna svelare un equivoco: in molti casi riduciamo il “confronto” al domandare cosa devo fare in questa o quest’altra circostanza. Così scarico la mia personale responsabilità su un’altra persona che decide per me, dimenticando che io ho già un criterio per giudicare tutto, come diceva don Giussani, e non approfittando delle circostanze per mettere in gioco questo criterio, per imparare a usarlo. Sembra che «domandando tutto», io segua una persona. Invece continuo a rimanere in uno stadio infantile e non divento adulto. Un’altra riduzione è pensare che confrontarci con il movimento si identifichi con metterci a tutti i costi d’accordo su una posizione comune (e se non siamo tutti d’accordo ci sarà sempre un qualche meccanismo che deciderà per tutti). E sembra che “salviamo l’unità” mentre la stiamo riducendo a un “metterci d’accordo” che inevitabilmente sarà soggetto a lotte e strategie di potere. Senza l’accento inconfondibile di un’unità sorpresa.
Ancora uno sguardo alla nostra storia rivela questa riduzione del termine sequela o confronto. Recentemente Carrón ci ha ricordato come don Giussani concepiva la sequela: seguire coincide con “il desiderio di rivivere l’esperienza della persona che ti ha provocato e che ti provoca con la sua presenza nella vita della comunità”. Il primo luogo del confronto è questo esercizio quotidiano, fatto di ragione e affezione, di rivivere l’esperienza del carisma così come si è espresso nella vita e nell’insegnamento di don Giussani, e che si può descrivere come un cambio di mentalità. La Scuola di comunità e gli strumenti pedagogici che don Giussani ci ha proposto sono il primo luogo in cui una mens nuova entra in noi.
Da questa mentalità nuova sorge una intelligenza della realtà che è riconosciuta come attrattiva, originale, e intorno alla quale, ancora, ci sorprendiamo uniti. Sarebbe una triste riduzione del carisma se una qualche istanza superiore dovesse assumersi il compito di ricondurre all’unità ciò che non è unito alla sua origine, sostituendosi alla libertà delle persone. Neppure il Papa si arroga questa funzione quando si tratta della libera iniziativa della persona su temi che hanno a che vedere con l’amministrazione della polis e che non attengono alla dottrina e alla morale cattolica.

La terza domanda nasce quasi dalle viscere del nostro carisma. Abbiamo sempre identificato nel dualismo uno dei grandi pericoli della nostra epoca, quello che separa drasticamente la fede (come devozione personale) e la vita (come azione che si regge su criteri propri), così che la prima non incide sulla seconda. Tanto la Nota di Cl quanto quella della Congregazione per la Dottrina della Fede emessa nel 2002 sull’impegno dei cattolici in politica, sottolineano la distinzione fra il campo della educazione alla fede e quello delle scelte temporali. Che differenza c’è fra la giusta distinzione di campi (che la Chiesa ha proclamato sempre) e il dualismo (che abbiamo sempre combattuto)? Questione interessante, soprattutto perché ci mette in guardia da un’oscillazione che ci porterebbe a interpretare entrambe le Note come un relativismo in materia di opzioni “politiche”, cosa che esplicitamente entrambe le Note vogliono evitare.
Se il dualismo attacca i fondamenti della Incarnazione (non per niente Cristo è l’alfa e l’omega di tutto, tutte le cose consistono in Lui), negare implicitamente o esplicitamente la giusta distinzione di campi ci pone nel solco del fondamentalismo che la Chiesa Cattolica ha sempre rifiutato. Questa distinzione ha favorito lo sviluppo delle democrazie occidentali e a sua volta ha rinforzato la libertas ecclesiae. Ma ancor più, questa distinzione sta alla base della pedagogia di Cristo, così come si mostra nei Vangeli. Una pedagogia che non cercava di tenersi fuori dalle questioni temporali (per occuparsi di quelle “spirituali”) ma che rivendicava tutta la libertà per la persona, perché solo in questa libertà accade l’adesione a Cristo. Facciamo un esempio.
Mentre Gesù insegnava nel tempio gli si avvicinarono alcuni sacerdoti e anziani e gli domandarono: «Con quale autorità fai questo?». La risposta di Gesù è sconcertante: «Vi farò anch’io una domanda e se voi mi rispondete, vi dirò anche con quale autorità faccio questo. Il battesimo di Giovanni da dove veniva? Dal cielo o dagli uomini?». Il Maestro rovescia la domanda: si manifesterà solo se i suoi interlocutori si mettono in gioco. Ed essi riflettevano tra sé dicendo: «Se diciamo: “dal Cielo”, ci risponderà: “perché dunque non gli avete creduto?”; se diciamo “dagli uomini”, abbiamo timore della folla, perché tutti considerano Giovanni un profeta». Rispondendo perciò a Gesù, dissero: «Non lo sappiamo». La risposta di Gesù esprime la pedagogia cristiana che Giussani aveva tanto a cuore: «Neanch’io vi dico con quale autorità faccio queste cose» (cfr. Mt 21,23-27). La direzione del voto o l’ambito di militanza politica sono spazi nei quali la persona deve rischiare un giudizio, mettersi in gioco.
In questo stesso contesto di polemica con l’establishment giudaico, i Vangeli ci mostrano l’episodio del tributo a Cesare, che la Chiesa ha sempre usato per illustrare la distinzione fra l’autorità ecclesiale e quella temporale. Gesù si libera dalla domanda capziosa che parte dalla vecchia alternativa sulla liceità o meno di pagare le imposte ai Romani affermando «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

Una quarta domanda si lega naturalmente alla precedente: dalla giusta distinzione di campi nasce quella che don Giussani definiva una «irrevocabile distanza critica» del movimento rispetto ai nostri amici impegnati in politica. Che cos’è questa distanza critica e in che cosa si differenzia da un “disinteresse” per l’azione concreta? In realtà, in questo caso, non occorre andare molto lontano per trovare esempi di questa posizione del movimento rispetto all’azione politica in senso stretto. La lettera di Julián Carrón pubblicata su Repubblica il 1° maggio 2012 è un esercizio di questa distanza critica che è a sua volta interesse e carità verso le persone implicate nella cosa pubblica. Se uno è leale nella sua implicazione concreta, sentirà questa distanza critica come un bene per la propria vita, per la capacità di correzione, di novità al momento di riscattare continuamente l’ideale davanti alla nostra inevitabile tendenza a ridurre il suo orizzonte.

Da ultimo, sorge una domanda riguardo a uno dei punti su cui maggiormente insiste la Nota di Cl: cosa significa che «il primo livello di incidenza politica di una comunità cristiana viva è la sua stessa esistenza»? Non nasconde una sottovalutazione della militanza politica propriamente detta? Questa è un’altra di quelle domande che andrebbero rovesciate per meglio capire la risposta. In realtà, non sarebbe una riduzione della nostra esperienza, e un'ingenuità dal punto di vista storico, ritenere che la nostra incidenza passi principalmente per la militanza politica?
In primo luogo rappresenterebbe una riduzione della nostra esperienza. In Tracce vengono presentati di continuo esempi di opere e iniziative che nascono da una «comunità cristiana viva» e sono casi reali di incidenza nella vita sociale, e per questo nella vita della polis. Si tratta di esperienze capillari cha cambiano il volto di una società. Sottovalutare questa dimensione della nostra espressione pubblica è un segno di grave miopia.
Ma ancor più, dal punto di vista storico, una riduzione come quella descritta dovrebbe essere tacciata di ingenuità. L’attuale Pontefice si è premurato di ricordarci più di una volta la carta che giocarono i Benedettini, in un’epoca di barbarie, creando intorno ai loro monasteri dei luoghi di civiltà che andarono a delineare il volto dell’Europa. Ma non occorre andare tanto lontano. Le battaglie contro l’aborto e il divorzio, di cui abbiamo fresca la memoria, ci hanno lasciato un insegnamento: se una società non è consapevole del bene che rappresenta l’accoglienza di una vita, o non vive l’esperienza di un amore che è segno di un Amore più grande, gli strumenti legislativi difficilmente potranno lottare controcorrente. Solo il moltiplicarsi di comunità cristiane vive potrà nuovamente generare esperienze di umanità vera che toccano ragione e affettività e per questo cambiano la mentalità.
Sarà segno di vitalità e intelligenza il fatto che queste comunità generino vocazioni alla vita politica in senso stretto, che collaborino alla difesa della libertà di qualsiasi iniziativa sociale volta a costruire. Non potremo non guardare a loro con simpatia.